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Il percorso saliva sul lungo filo di cresta del Monte
Puzzillo, innalzandosi al di sopra dei boschi e degli altipiani, tra visuali
pulite a
ridosso di un cielo limpido con appena qualche nuvola in compagnia del
sole. Tra le pietre si schiudeva la bellezza delle primule orecchia
d’orso, con
il loro giallo lucente, le viole montane e i fiori di globularia, piccoli microcosmi
dove api ed altri insetti bottinavano la dolcezza dei
pollini di maggio. I pendii
spogli, a malapena maculati di ginepri, scivolavano a valle per inabissarsi nei
boschi, mentre la parte
sommitale della montagna si ergeva solennemente come una
piramide perfetta. Seguivamo il filo di cresta oltre la vetta, a cercare un
affaccio
sulla Valle Leona e la discesa lungo la Macchia del Puzzillo, località
accessibile eppure remota, lontana da tutto e da tutti, immersa nella
quiete
della vegetazione. Usciti dal bosco attraversavamo una serie di dolci
avvallamenti che modulavano la Piana prima di stendersi verso il
fondo
completamente asciutto del Lago stagionale, da lì una carrareccia ci
accompagnava sulla via del ritorno, chiudendo il bellissimo anello al
valico
della Chiesola di Lucoli.
Monte Orsello faceva da testa ad una lunga dorsale, seguito
da Pizzo delle Fosse, Monte Terriccio ed altri rilievi più modesti, disposti a
separare le Valli di Lucoli e Tornimparte. Salendo da Forca Murittu seguivamo
il filo di cresta della montagna ammirando i panorami di
entrambe le vallate.
Alcuni cavalli stazionavano negli avvallamenti rivestiti di erba e di fiori, dediti
al pascolo lento e alla quiete di maggio.
Il cielo, ingrigito dallo Scirocco, pareva un’estensione dei colori della pietra, che a tratti affiorava dal suolo
con grossi macigni e magnifici
karren. Le cime erano marcate da ometti di
pietra e da un’edicola lignea sul rilievo più alto, non c’era più la piccola
croce di vetta, mentre
rimaneva intatta l’assoluta bellezza dei panorami sulla
Piana di Campo Felice. Il sentiero scendeva rigando la terra che a tratti si
tingeva del rosso della bauxite, fino ad intercettare la carrareccia di
collegamento delle vecchie miniere, tra cave dismesse e campi
rigogliosi di asfodeli.
Salivamo dal Ponte della Lama lungo la dorsale di Monte San
Franco, sotto il peso di un cielo coperto ma stabile e il vento caldo dello
Scirocco. I panorami erano velati, ma nonostante questo comunque bellissimi,
confusi tra sovrapposizioni di prospettive aeree in grado di
alleggerirne le
visuali. I piccoli fiori di montagna ci donavano la bellezza di infiniti
microcosmi: in un ambiente apparentemente spoglio
come quello l’attività frenetica
degli insetti, intenti a bottinarne il nettare, celebrava la vita. I profili
indecisi delle montagne custodivano i
frammenti di neve come vaghi ricordi del
freddo, mente dal basso, nel fitto dei boschi, riecheggiava il canto del cuculo
a segnare la fine
dell’inverno. Seguivamo il filo di cresta al di sopra delle
Valli dell’Inferno e del Paradiso, per poi scendere nei prati sottostanti dove
le peonie selvatiche tenevano ancora per sè la bellezza dei loro boccioli,
lasciando alla nostra immaginazione soltanto il potenziale del loro
fascino. Ai margini del sentiero, sulla via del ritorno, alle pendici occidentali di Monte
San Franco, giaceva nell’ombra l’edicola rupestre
della Madonna della Zecca, la
cui raffigurazione prendeva forma in una piccola statuina alloggiata in una
nicchia, ai lati di un modesto
sgrottamento, la cui collocazione era stata
celebrata dagli Alpini il 14 agosto 1955, ma che tuttavia risultava già preesistente.
La strada saliva alla volta della montagna, ripercorrendo parte
dell’antica via di Annibale che nella sua condizione più selvaggia
manteneva il
fascino intatto di una natura al di sopra del tempo e della presenza dell’uomo.
Dopo alcuni decenni dalla realizzazione della tanto
contestata strada di accesso
agli altipiani superiori, i boschi si erano finalmente infittiti e la
vegetazione aveva oscurato di molto le tracce
degli sbancamenti. Seguivamo la via
del Fosso di Ruella fin dove era praticabile, per vedere la via dell’acqua di
superfice, scoprendo angoli
di bellezza incontaminata. I prati superiori alla
destra orografica del fosso si modulavano in dolci avvallamenti impreziositi da
fioriture rase
come il manto erboso, movimentato solo dai cespugli di uva spina
e rosa canina, e da lunghe file di muri a secco, ricordi di un passato
rurale intriso
nella terra e percepito nel silenzio. Salivamo tutta la Valle di Ruella per
raggiungere il Rifugio delle Ferrarecce, i prati aperti e
senza ormai più limiti dei
boschi trovavano sfogo verso il cielo e la cima delle montagne. I laghi
stagionali erano asciutti, e i pascoli seguivano
composti i loro tragitti.
Ammiravamo la bellezza della lunga dorsale di Monte Cava, che dal Male Passo al Vado di Femmina
Morta, si
innalzava dinanzi a noi velato di nubi.