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Villavallelonga
si lasciava alle spalle la nebbia del Fucino, che come un lago ne dava
l’illusione del suo stato originario. Ci alzavamo appena di pochi metri e tutto
si scopriva sotto la luce
bellissima dell’alta pressione: lo sguardo sconfinava
fino in lontananza, fermandosi ai baluardi delle montagne definite da una
visibilità perfetta. Monte Marcolano sorgeva a sinistra nel fondo
valle, il suo
profilo si innalzava lasciando esaurire al percorso del Vallone Forte quasi
tutto il dislivello dell’intera escursione. Percorrevamo un’immensa faggeta
arricchita di esemplari
antichissimi, quasi tutte le foglie avevano trovato a
terra la loro dimora, in attesa dell’inverno che presto le avrebbe coperte di
neve. Giunti al valico lo sguardo si apriva sui profili del Parco
Nazionale
d’Abruzzo Lazio e Molise, montagne e vallate ne scandivano la profondità,
definite dai colori più o meno carichi dell’autunno. Monte Marcolano innalzava
ulteriormente il suo
punto di vista, lasciando scorgere addirittura il filo di
cresta della Majella innevata. Da lassù lo sguardo si inabissava nei tantissimi
valloni incassati che scendevano a valle, fitti di bosco e
comprensibilmente
scelti dall’orso marsicano come dimora. Tutte quelle vie di fuga terminavano a
valle nei Prati d’Angro, che con il verde inteso dell’erba, sempre rigogliosa
grazie al suo speciale
microclima, definivano un’area di forte contrasto con i
toni ormai spenti del bosco. I faggi giganteschi sotto Rocca Genovese erano
ormai completamente spogli, apparivano grigi, maestosi e vecchi,
tanto da
simulare l’impressione di un bosco di pietra. Scendevamo percorrendo il Vallone
di Cervara, inabissandoci di nuovo nelle tonalità calde dell’autunno, le foglie
ammorbidivano
il nostro passo, che in questo modo proseguiva a valle agevolato, leggero così come lo erano i nostri pensieri.

Camminavamo lungo
il sentiero che da Santa Dorotea saliva in direzione di Monte Soffiavento,
inoltrandoci in una carrareccia
silenziosa. Alcuni alberi si rivestivano completamente
della barba dei licheni, tanto da
apparire proprio come un bosco di
lana. Gli abitanti di Scoppito tramandavano
il nome di Monte Fiataventu, portando alla memoria le contrazioni dialettali di un
tempo: quelle parole lontane affioravano tra i ricordi, e facevano rivivere
antiche identità come lo Iùbbere o lo
Iacciu deji
Muntanari. Parte di Monte
Soffiavento era esposta a causa di un incendio che anni fa ne distrusse una
fascia di bosco, da allora
solo alcuni arbusti ne rivestivano la cima, che così
spoglia e rada guardava la conca aquilana e il Gran Sasso, vedeva esposta la
Laga
e scrutava la Majella, ma soprattutto ammirava Monte Calvo da una posizione
privilegiata. Scendevamo verso Ovest alla ricerca
di nuovi sentieri, tra
miriadi di foglie al suolo che ammorbidivano il nostro passo. Ci immergevamo in
luoghi che ci appartenevano
nonostante fossero sconosciuti, e li percorrevamo
scoprendo solo sentimenti familiari.

I Monti della
Laga si animavano di nebbie svaporate dal vento di Scirocco, che coprivano e
scoprivano le montagne vestendole di mistero e suggestione. A conferire
ulteriore sacralità a tutta
quella visione maestosa era il colore dorato del
falasco secco, che con le sue sfumature bionde richiamava in pieno l’idea
dell’oro. Il sentiero di Piana Grande saliva addentrandosi in una delle più
belle cattedrali dei Monti della
Laga: tra Cima Lepri, Pizzo di Moscio e Monte Gorzano sembrava di essere sotto pilastri
insormontabili, li ammiravamo dal basso divenire sempre
più grandi, mentre lateralmente lo sguardo scendeva a valle a seguire il corso dei fiumi e i salti
delle cascate. I colori dell’autunno si esponevano in tante tonalità differenti,
non solo
prendeva corpo il rosso e la ruggine, ma anche la straordinaria
visione di un verde tardivo, più accostato alla primavera che a questo preciso periodo
dell’anno. Lo Stazzo della Pacina godeva
di un notevole privilegio visivo sul
grande fosso in ombra e sulle pareti sovrastanti. I resti di un vecchio rifugio
portavano la memoria delle pietre a secco, nel silenzio pacato di una delle più
belle valli dei Monti della Laga. Percorrevamo parte del Sentiero dei Ficorari, che fino agli anni ’50 era una via di
collegamento molto importante tra Amatrice e Teramo: un tempo veniva
transitata
dai contadini che con i muli partivano da Montorio al Vomano per raggiungere
Amatrice, con lo scopo di vendere i propri fichi tanto rinomati, e da questa
caratteristica ne derivava il nome.

Monte Calvo viveva
l’autunno, a differenza di qualche giorno fa precocemente rivestito di neve. Tutti
quei colori sottolineavano la magia della montagna: tra i contrasti animati dei
rossi e la
leggerezza dei gialli, ripensavo alla leggenda di monte Calvo letta
nelle Montagne della Luna. Nel secolo
scorso, il piccolo laghetto sottostante la cima era la dimora di una bellissima
fata,
sopravvissuta agli occhi di un allora pastore-bambino. Gli anni erano
passati ma le parole trasmesse continuavano a vivere ancora negli occhi di chi guardava. La luce del pomeriggio si
curvava sulle montagne accarezzandole con le note precedenti al tramonto, dando
ulteriore intensità ai colori già caldi dell’autunno. Quel piccolo lago era ciò
che rimaneva di un grosso
bacino d’acqua, che secondo la leggenda si estendeva
fino alla cima di monte Calvo. Le ombre della sera cominciavano a movimentare
di chiaroscuro le coste della montagna, vestendo di
freddo tutto quello che si
nascondeva alla luce. Dalla cima osservavo il dirupo esposto a Nord, vedevo
bene fonte Bregna e ripensavo ancora alla leggenda. I colori continuavano a
vertere
nelle soffuse intenzioni del tramonto, ed ogni favola pareva animarsi
sotto il suo spettro. Alcune nuvole giocavano a sfilacciarsi sul profilo del
Gran Sasso; con l’allungarsi delle ombre
la terra si preparava al riposo, le
mucche e i cavalli si erano già allontanati per prepararsi alla notte, mentre
il silenzio scivolava dietro i nostri passi e si preparavano anche i sogni.

La pioggia
scendeva abbondantemente sulla faggeta di Pescasseroli, senza mai smettere per
tutto il tragitto fino a Villavallelonga. Il
bosco si animava del rumore del
suo scroscio d’acqua e ci isolava tutti nei nostri pensieri. Salivamo su di un
letto di foglie morbide,
dove un folto strato ne addolciva il percorso fangoso,
mentre mano a mano si evidenziavano i colori dell’autunno, attraverso le
poche
foglie rimaste attaccate ai rami che filtravano la luce. La foresta vetusta si
lasciava scoprire a tratti con i suoi faggi
secolari, la loro dimensione imponente
pareva volesse proteggerci dalle precipitazioni del cielo e i malumori del
mondo:
dentro la foresta tutte le negatività rimanevano fuori, solo l’energia
della terra aveva una comunicazione diretta. Seguivamo
il letto pietroso dei
fossi, che così bianchi si stagliavano sulla natura circostante come fiumi di
roccia, mentre la bruma di
novembre filtrava tra gli aceri e i faggi,
sacralizzando la foresta in una percezione misteriosa. L’autunno al Parco
Nazionale
d’Abruzzo Lazio e Molise era bellissimo anche così, tra la pioggia
battente e ininterrotta e il fango ricoperto dalle foglie cadute.
