domenica 17 febbraio 2019
La Grotta del Cervo
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domenica 10 febbraio 2019
La Grotta delle Praje di Lettomanoppello
LA GROTTA DELLE PRAGLIE
"Son molte ed effimere le storie che si
contano della Caverna delle Praglie. Io non posso rammentarmi di essa senza
esser compreso in un tempo da maraviglia e da spavento, e que’ montanari
parlano di
quel luogo come di cosa misteriosa e terribile. Posta un miglio in
su di Letto Manoppello in un selvaggio luogo, noi vi andammo alle 2
pomeridiane, tutti animosi e baldi per la cognizion d’un luogo, la
natura del
quale fi no a quel dì ci era stato affatto ignoto. L’ingresso della Cava non
altro ti presenta, che una buca rotonda, orizontale, appena capace a dar adito
ad un uomo, e dove è d’uopo discendere o
con funi, o per mezzo di uomini che
discesi prima de te faccian base delle loro spalle a’ tuoi piedi, e ti menino
pian piano al basso. Così ci convenne fare, ed io primo ne feci prova
attendendo che gli altri
m’imitassero, ed in un momento tutti ci trovammo nel
bujo. Discesi che fummo in quella cavità tenebrosa, ed accese le faci, che a
tal uopo facemmo quivi portare da 6 provati montanari, eccoci in una stanza
misteriosa, che aprivasi a noi dinanzi come un gotico tempio, ma d’una
fantastica e svariata architettura. Quivi erano informi colonne all’intorno chi
più e chi men grandi, e la volta fatta a strati pendenti e
diafani offriva
l’aspetto di tanti drappi stesi ed ineguali, frastagliati nel lembo, d’un
colore verdognolo, e bianco, simiglianti chi a lucido marmo, e chi a candido
alabastro. Quindi gocciavan perpetue stille di
acqua dalle acute stallattiti
che pendean quà e là negli angoli della volta simili a candelotti di neve, e l’umidità
delle pareti, il rossastro e fumante splendore delle torce ripercosso da quelle
lucide punte che
parean diamanti e rubini, facevano un’alternativa la quale era
la più bella cosa al mondo. A diritta ed a manca di questa prima cava si aprivano
due altri spechi minori, de’ quali uno s’internava per le
viscere del monte
dal lato orientale, l’altro dal
meridionale. Noi entrammo nel primo:
ma come la sua strettezza non dava agio a corpo umano internarvisi addentro; retrocedemmo,
ed entrammo nel
secondo. Era una meraviglia vedere, come a misura che
c’inoltravamo, e si squassavano le faci per rinvigorirne la fiamma, attraverso
di quella densa ed umida tenebria rotta dallo splendor
fioco e vacillante delle
nostre torce, ci si spiegavano innanzi le interne viscere del monte in svariate
forme e colori, ora più ampie, ora più strette, or ritorte ed or diritte, e
mirabile sempremai per le sue
fantastiche sinuosità, e per que’ delicati, e
lucidi massi di che eran formate le pareti e le volte, ora piane, ora spaccate
in larghe fenditure simili agli archi degli antichi marmorei tempii, e
sostenuti da informi
pilastri, e da picchi piramidali, ed alcuna volta anche
pendenti a festoni, e goccianti sempre acque limpidissime e fresche. Le nostre
cupe e sonore voci: i nostri passi risuonanti di più cupo e prolungato
sonito:
il bituminoso fumo delle torce che ci accecava gl’occhi: il terribile pensiero,
che non si spegnessero, e ci lasciassero colà miseramente morire: l’asprezza
del luogo, ed il timore che in
montando su quegl’umidi e sdrucciolevoli massi
non avessimo a cadere e stritolarci le ossa: i continui pozzi di acqua che
incontravamo per lo spazzo della cava, e che non potevam discernere e per
luogo, e per la trasparente limpidezza di essa: il desiderio di
andar più oltre, e di scovrire nuove maraviglie; tutte queste cose ci
comprendean l’anima sì fattamente che noi non pensavam né dove
eravamo, né come
fossimo entrati in quel meraviglioso, e terribile luogo. Può ben immaginarsi se
io volgessi in quel punto il mio pensiero a Merlino, alla Sibilla, ed alle
Catacombe di S. Gennaro: ma
nulla eran queste a paragone della più che
romantica grotta delle Praglie. Là non era né la nereggiante ardesia, non lo
scisto calcario, non la bianca marna, né il ruvido tufo, ma tutto era
incrostato di stillattite sì terso, sì lucido, e sì regolare, che tu lo avresti
creduto marmo, e marmo lavorato. Oh! quanto meravigliosa e terribile si era la
natura in quel luogo! noi pensavamo alla terra come se fossimo in inferno;
l’aria ci sembrava più lusinghiera e serena, ed il pensiero che non fossimo
colà schiacciati e sepolti da quelle volte cadenti, ci faceva raccapricciare,
abbrividire. Ci eravam un miglio, o poco meno in quelle cave inoltrati, ora
montando, ora scendendo, ed ora camminando carponi, ed arrampicandoci su quelle
umide pietre, allorché ci accorgemmo, che le faci erano per mancare. Ci si
chiuse la mente all’idea del pericolo a che avremmo potuto incorrere avvenendo
che si fossero spenti del tutto, e noi per un momento provammo la disperazione
della morte. Pur retrocedemmo a rompicollo, e nulla curando le continue cadute
e la probabilità di smarrirci per que’ cavernosi laberinti: compresi tutto dal
pensiero di riveder la luce, dopo moltissime giravolte ed andirivieni ci
trovammo alfi ne nell’ingresso della cava, e di là riuscimmo tutti lordi e
fangosi, come se fossimo stati immersi nella broda de’ superbi di Dante; e così
ritornammo a Letto-Manoppello. Non dirò come si formino queste cave, e di che
specie sieno le stallattite, credendo che sia, o debba esser privilegio comune
la scienza naturale: dirò solo che il nostro M. Majella è fecondissimo di
simili cave, ma niuna è tanto bella e svariata come quella delle Praglie, la
cui lunghezza e profondità è fino ad ora un mistero. Pasquale de Virgiliis,
1835.
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