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Punta Campanella si animava del fascino della leggenda del
mito, il canto delle sirene di Ulisse era nell’eco del vento che prendeva
fisicità
attraverso il movimento di foglie ed arbusti. Tra mirto, lentisco,
rosmarino, elicriso, ginepro fenicio e ginestra, vi erano i profumi della
loro
essenza misti a quello del mare, che con il suo essere coinvolgeva tutti i
sentimenti. Sulla cima della montagna la piccola chiesa
di San Costanzo segnava
il punto di congiunzione tra cielo e terra, le sue semplici pareti bianche si
esponevano alla rosa dei venti,
ammirando panorami sconfinati che si perdevano
a vista d’occhio, tra il Golfo di Napoli e il Golfo di Salerno. Da Termini
partiva una comoda
strada che ricalcava l’antica via Minerva dove in molti
tratti era ancora visibile l’antico basolato romano risalente al IV sec. a.C.
Il
promontorio di Athena ci donava la testimonianza dei resti di una villa romana,
scale intagliate nella roccia, vasche e sostruzioni voltate,
ma soprattutto di
notevole bellezza erano i due approdi, orientale e occidentale, che si
incuneavano nelle rispettive pareti rocciose di
slancio vertiginoso. Un
cartello informativo del luogo riportava queste informazioni: “Al Promontorio di Punta della Campanella si
giungeva
anche da mare, attraverso due approdi: uno occidentale ed uno
orientale. La presenza di un'area sacra dedicata al culto di
Athena/Minerva è
indicata anche dalla scoperta di un'epigrafe in lingua osca, databile alla
prima metà del II secolo a.C. L'iscrizione,
incisa sulla parete rocciosa
risalente dall'approdo orientale, nomina tre meddices Minervii (magistrati) che
appaltano e collaudano i
lavori per l'approdo stesso al santuario e la
costruzione della scala intagliata nella roccia. Questa epigrafe, oltre a
confermare la divinità
di culto del santuario, comprova la presenza sannitica
all'estremità della penisola sorrentina e l'amministrazione del santuario
stesso. Il
culto di Athena, venerata ora come Minerva, a Punta della Campanella
dovette godere quindi di una grande importanza ancora
nel II secolo a.C.,
quando il collegio dei decemviri romani lo accosta al Campidoglio come luogo in
cui sacrificare vittime maggiori.” (tratto
da un cartello informativo del
luogo). Ad oggi, sulla propaggine, erano ben visibili l’antica torre vicereale
riedificata nel 1566 su
quella di età angioina del 1334 e un faro moderno.
La chiesetta rupestre di San Cesidio sorgeva solitaria nel
fitto della vegetazione di una piccola collina, a circa un chilometro dal paese
di Goriano Valli. La sua condizione diruta, spogliata dei suoi elementi
architettonici e degradata dallo scorrere del tempo, ci giungeva quasi
anonima
se non per le sue mura perimetrali che ancora definivano gli ambienti, alcune
tracce di affreschi e un elemento lapideo inciso sulla
facciata di ingresso. L’antica
volta a botte era completamente crollata, il fondo del pavimento era un cumulo
di pietre miste a vecchi coppi del
tetto e arbusti, ceppi secchi di mandorli e
querce. Quella piccola area sacra era stata ripresa dalla natura e a noi rimaneva
soltanto di
osservarne l’essenza. CRUTILIO-T-F-VEL LUPULO EX-TESTAMENTO erano
le parole incise su di un blocco di pietra alla base
dello spigolo sinistro dell’ingresso,
unica testimonianza custodita di un passato lontano memore della vita dei
nostri antenati, probabilmente
ancora presente solo perché difficile da
trafugare. Ero venuta a conoscenza della Chiesa di San Cesidio grazie ad un
articolo scritto da
Silvio Di Giulio recante a riguardo una documentazione
fotografica dove erano ancora visibili il campanile gotico, le cornici di porte
e finestre, il concio di pietra ad anello per legare gli animali, l’altare e la
volta. In passato il santo veniva celebrato qui il 31 di agosto, mentre
adesso soltanto
in paese. Goriano Valli custodiva tra i suoi vicoli la preziosa bellezza dei
fiori della vita, tra stipiti e architravi ne contavo
ben diciassette. Grazie a
Silvio di Giulio per avermi dedicato il suo tempo accompagnandomi alla scoperta
di tutti questi preziosi tesori.
Aspettavamo il treno alla stazione ferroviaria di Sassa, che
già ci introduceva nella visione del nostro viaggio, dove meta e percorso coincidevano.
Sul treno pochissime persone e fuori la bellezza
delle nostre montagne
conosciute ma viste da un altro punto di vista; raccoglievo nel cuore la
gentilezza della capotreno che veniva da noi credendoci forestieri ad indicarci
gli scorci panoramici più belli,
il suo voler condividere la bellezza era per
me un bellissimo regalo. Da Contigliano raggiungevamo Todi passando per
Marmore, Terni, San Gemini e Acquasparta, percorrendo lentamente chilometri di
strade,
attraversando paesi e luoghi autentici, dove l’essenziale mi faceva
stare bene. Con Todi bellissima e la compagnia di cari amici del posto concludevamo
il primo giorno del nostro viaggio. L’indomani
seguivamo le strade lungo il
Tevere, affiancando il Lago di Corbara, facendo sosta nella bellissima Orvieto,
con il suo duomo e i suoi vicoli che si facevano percorrere facilmente in
bicicletta. Acquapendente,
Onano, San Quirico e Pitigliano, ci fermavamo qui in
una delle case a strapiombo dello sperone tufaceo, con alle spalle il cuore del
paese e davanti il panorama di vallate verdeggianti. Il terzo giorno partivamo
da Pitigliano passando per Manciano, Marsiliana e Magliano in Toscana, dove
nelle prossimità l’Abbazia di San Bruzio riecheggiava d’importanza oltre lo
scorrere del tempo, con le sue volte di pietra
lavorate aperte al cielo e
abitate da colombe. Poi Montiano, Grosseto e Castiglione della Pescaia, ci
fermavamo qui, l’indomani avremmo raggiunto l’Isola d’Elba. Tra strade
assolate, viali bordati di pini
marittimi e il rumore assordante delle cicale fiancheggiavamo
il Golfo di Follonica fino a Piombino, dove ci attendevano i traghetti per l’Isola
d’Elba. Poi Portoferraio, Procchio, La Pila, Marina di Campo, Cavoli,
Seccheto,
Fetovaia, Pomonte e Chiessi, la nostra destinazione. La bellezza dell’Isola d’Elba
era nelle sue strade tortuose che tra salite e discese collegavano i paesi, negli
affacci panoramici che lasciavano
scorgere la Corsica e l’Isola di Capraia, nella
sua semplicità che vedeva a Chiessi un unico ristorante, un’unica spiaggia,
poche barche e tanta tranquillità. Finalmente potevo riposarmi.
Dopo tre notti sull’isola la via del ritorno. Alla stazione
di Campiglia Marittima prendevamo il treno fino a Tarquinia, un’altra
bellissima città da visitare. L’indomani percorrevamo un tratto obbligato
di
Aurelia passando vicino all’acquedotto delle Arcatelle, attraversando vallate e
pendii, antiche terre etrusche disseminate di storia. Monte Romano, Vetralla,
Pian di San Martino, Ponte di Cetti e la magnifica
Viterbo con i suoi 39,7
gradi, poi Bagnaia, Pallone e Santarello, Bassano in Teverina e Orte, dove
prendevamo il treno – anche se per pochi chilometri – per evitare il caldo e la
congestione stradale di
Terni, da qui continuavamo in bici verso Marmore per la
salita di Papigno fino a raggiungere la Conca Reatina e le sue bellissime
ciclovie, dove temperature più moderate rendevano più piacevole il nostro
viaggio. L’ultima notte la trascorrevamo in un palazzo storico di Rieti, nel
centro della città, trovando una dimensione accogliente. l’indomani tornavamo a
casa passando per Antrodoco, portavamo nel cuore
l’esperienza del viaggio e
nelle gambe 605 chilometri percorsi in bici. (3-11 luglio 2023).
Andata:
Ritorno: