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L’ultimo giorno, prima della partenza, ci recavamo in visita
al monumento della Foiba di Basovizza, dove la crudeltà dell’uomo aveva scritto
terribili pagine di storia. Mi prendeva una tristezza infinita nel pensare a
quel luogo dove persone comuni erano state ingiustamente trucidate, ai loro angosciosi
pensieri prima di andare alla morte, e di come quell’atto ignobile venisse poi
insabbiato per ragioni politiche, e, purtroppo, anche tuttora poco riconosciuto
nella giusta memoria.
La leggenda era la
poesia del popolo, chissà quanti racconti riempivano i vuoti del carso
triestino, quanti aneddoti e testimonianze
più o meno note in un ambiente così
naturalmente caratterizzato. Vecchie grafie sulle pareti calcaree toccavano i
secoli scorsi, il tempo si
fermava negli antri del buio mentre fuori era tutto passato.
Facevo tesoro di una settimana trascorsa tra amici, in tenda, completamente
dedicata alle grotte tra Trieste e la Slovenia. Vivere costantemente il
sottosuolo cambiava i ritmi, modificava i tempi, si andava soltanto alla
ricerca del necessario, ed io in tutto questo mi ci trovavo molto bene. Visitavamo
diverse grotte calandoci in parte di un vastissimo mondo
sotterrano, ammirando
la bellezza delle concrezioni modellate dall’acqua e dal tempo, nel silenzio
del buio che veniva attraversato
soltanto dalle nostre luci. Percorrevamo Grotta del
Paranco, Grotta Ercole, Grotta Orso, Grotta Skilan, Grotta delle Margherite,
Fessura del
Vento, Grotta Vilenica, LP2, ed altre di cui non ricordo il nome.
Sul fianco di una dolina, protetto da una costruzione, si
apriva l’ingresso dell’Abisso di Trebiciano. Una lunga serie di pozzi,
attrezzati
tutti con scalette di metallo, conducevano all’interno di un’enorme
caverna, il cui fondo, dapprima sabbioso, continuava a scendere fino
agli
specchi d’acqua dei sifoni di ingresso e di uscita: ci trovavamo nel letto del
Timavo, il magnifico fiume sotterraneo che nasceva col nome
Reka, si inabissava nelle Grotte di San
Canziano, raffiorava e sfociava nel golfo di Trieste. Ci trovavamo lì in
occasione della Timavo System
Exploration,
un programma di esplorazioni speleosubacquee organizzata dalla Società
Adriatica di Speleologia con la collaborazione
della Fédération Française
d’Études et de Sports Sous-marins (FFESMM) di Marsiglia. Da anni ripetevano i
loro appuntamenti
esplorativi estendendo la partecipazione anche ad altri
gruppi speleologici, tra cui anche il mio, per la collaborazione del trasporto
materiali. Rimanevo affascinata dalla lunga serie di scale sospese, verticali e
gettanti, alcune congiunte nel vuoto, che davano idea della
tenacia dell’uomo a
voler trovare la via. Osservavamo gli speleosub immergersi, le loro luci mano a
mano affievolirsi nell’acqua,
che oscurata dal buio della grotta conteneva
sogni, ignoto e paure. La dedizione alla ricerca, la collaborazione per un
progetto comune, e la
condivisione rafforzata dal sentimento di amicizia,
davano a quell’appuntamento un grandissimo valore.
Sotto la foschia dei venti caldi si alleggerivano
visibilmente lo spazio e le lontananze, le ombre della sera si perdevano nelle
sfumature
dell’indaco, forme e colori si mescolavano in un’unica dimensione. I
cavalli al pascolo si raggruppavano per affrontare insieme la notte,
mentre il
vento spazzava su tutte le superfici scoperte. Il cielo notturno teneva
nascoste le sue stelle dando risalto ai lumi dei paesi sottostanti,
che con
l’avanzare del buio prendevano sempre più forza. Dalla cima della montagna contemplavamo
la notte, l’oscurità ci privava dei
riferimenti calandoci in una dimensione
unica da attraversare disarmati, ma comunque accolti, a confine della cava
fonda del cielo.