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Le Isole Tremiti si perdevano nel mare, protette da tutta quella immensità sconfinata e misteriosa. Mentre avanzavamo di rotta le
vedevamo comparire all’orizzonte, anticipate dalle nuvole che vi erano sopra. Chissà quali sentimenti contrastanti animavano il
cuore di un isolano, così lontano dal mondo e vicino a se stesso, mosso tra l’odio e l’amore di un desiderio d’evasione e una
fortissima appartenenza. Probabilmente sarebbe partito, sicuramente sarebbe tornato. Tra i boschi di San Domino e i
reperti di San Nicola correva il mito di Diomede, profumato del mirto e raccontato dal vento. Le piante dei capperi rivestivano la
terra, mentre strane rocce assumevano forme di elefanti. Alcune caprette nere si inerpicavano su sentieri strapiombati, nel basso
delle carceri e al di sopra del mare. I vicoli del Torrione raccontavano la storia di nonna Sisina, impastata alla nostalgia e
alla memoria dei ricordi: nonostante il tempo trascorso l’abbiamo incontrata lì, ancora pronta ad accogliere chiunque bussasse alla
sua locanda. Il rumore delle cicale si incorporava all’ombra di un caldo pomeriggio d’estate: tra la gente che arrivava e quella che
partiva solo alcuni sarebbero rimasti, pronti come ogni sera a guardare l’orizzonte.
Nella mente gli scorci dolomitici ancora mantenevano i loro profili: eravamo tornati da poco da Dobbiaco, e subito ripartivamo per continuare il nostro viaggio. Lasciavamo la macchina per proseguire con la moto, pochi bagagli e tantissima
voglia di viaggiare, alla ricerca delle strade interne e secondarie che ci permettevano di godere anche e soprattutto dell’idea stessa del viaggio. Vieste ci attendeva, erano passati circa tre anni dall’ultima volta che c’ero stata.
Il Lago di Braies si tingeva del plumbeo colore del cielo, a breve sapevamo che sarebbe giunta la pioggia, così volevamo aspettarla lì, per vederla nella sua veste più bella, mentre si univa,
si raccoglieva, si sposava con la sua stessa essenza. Le piccole barche del molo venivano raccolte per il maltempo, tutto si incantava in maniera silenziosa e ordinata, tra i lamponi selvatici
e i sentieri tracciati dal passaggio dell’uomo. Il lago, sempre più scuro, era come uno specchio che rifletteva la Croda del Becco, posso quasi descrivere il mio umore di allora, così assorto
e incantato a comprendere quella straordinaria bellezza. Il tempo sarebbe passato sopra quel presente, e già comprendevo fin da subito che quella visione mi sarebbe mancata. Ormai
la pioggia cominciava a scendere su di noi in maniera battente, potevamo finalmente ammirarla al riparo degli alberi, seduti sul bordo del lago.
Lo sguardo percorreva la Val Fiscalina, lasciandosi accarezzare dal verde intenso dell’erba. Le pareti verticali delle Dolomiti di
Sesto interrompevano ogni prospettiva orizzontale: tutto saliva, prima si distendeva e poi si sollevava, nobilitandosi al cielo e ai
raggi del sole. La frana di Cima Una imponeva il peso della montagna, dandone l’imperativo del suo valore assoluto: la sua
parete verticale si drizzava ripida fino in cima, toccando il cielo e l’oltre, perdendosi tra le nuvole e l’altrove. Il sentiero serpeggiava
in un percorso frequentato da molti turisti provenienti da diverse nazionalità, ma mai ne avrei immaginate così tante presso il
Rifugio Locatelli davanti le Drei Zinnen, le Tre cime di Lavaredo. Tantissimi idiomi differenti si fondevano con il suono del vento, in
una voce unica che scivolava verso Sud. Il cappello di alta pressione regalava all’Italia davvero giornate splendide di cui in
molti approfittavano. Il nostro percorso riprendeva per vie più solitarie, costeggiando laghetti e circhi glaciali, tra scorci
incantevoli, ghiaioni e rocce affilate. Il candore duro della pietra era ammorbidito dai papaveri gialli di montagna, che con la loro
delicatezza suggerivano poesia e memoria di altri tempi: quei fiori si rinnovavano su percorsi impossibili, vissuti un tempo dai
soldati della Prima Guerra Mondiale. Le vecchie trincee dismesse, con i ripari nascosti e i passaggi segreti, raccontavano un
adattamento disumano dell’uomo nei confronti della Natura. Adesso ai miei occhi tutto era assolutamente bellissimo, ma di
certo un tempo non lo era per quei soldati, che sicuramente sognavano solo la loro casa, scaldandosi il cuore con il ricordo
della persona amata. Quelle pietre trattenevano ancora la memoria degli uomini andati perduti, erano parole sollevate dal
vento, sottili e sussurrate, planavano costeggiando la terra per poi perdersi in un salto, nel vuoto abissale del cielo. Quella montagnaera come una cattedrale, la sua parte sommitale si conteneva in un perimetro sacro che come cupola aveva la volta del cielo.
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Il cielo si specchiava sulla superficie del lago giocando a confondersi, il vento era sceso tanto da appianare ogni increspatura. I profili delle montagne si stagliavano perfetti su quello specchio, identificandosi in colori intensi e crepuscolari: ogni cosa era dolcissima. Lungo la prospettiva di quelle profondità correva la favola di Misurina, un bambina che per padre aveva una montagna. I turisti passeggiavano lungo le sponde del lago, alternandosi tra chi veniva e chi andava, noi ci trattenevamo sul molo, a guardare.
A breve saremo partiti, lasciavamo i meravigliosi scenari dello Sciliar e dell’Alpe di Siusi per andare a Dobbiaco, alla scoperta della Val Pusteria e delle Dolomiti di Sesto, ma prima di andare mi veniva fatto un altro regalo: la visita dei Laghetti di Fié.
L’eccellente gestione del posto amplificava un luogo già bello di suo, rendendolo fruibile al massimo, ma mantenendo al contempo un saldo rapporto con la Natura. Ammiravo moltissimo la gente del Nord, ma soprattutto invidiavo il loro senso civico per il bene
comune che gli permetteva di gestire i loro paradisi. Nessuno lì si permetteva nemmeno di buttare una carta per terra, sono certa che la gente stessa del posto avrebbe fermato chiunque mancasse di tale rispetto. E infatti lì le strade erano tutte pulite, perfette,
bellissime. I Laghetti di Fié si mostravano come due specchi, uno pronto ad accogliere i bagnanti, l’altro adibito per la pesca. Le trote affioravano a pelo d’acqua scivolando nel loro regno, mentre altrove fiori di ninfea ne ricamavano la superficie. Sulla riva,
alcune barche richiamavano ad una visione romantica in attesa di coppie di amanti, mentre il vocio della gente si mescolava alle risa dei bambini, ancora attutite nelle prime ore del mattino. A malincuore dovevamo partire in direzione Nord-Est, ero
dispiaciuta di lasciare tutta quella bellezza, ma al contempo ero entusiasta di scoprirne altra, di certo unica anch’essa.