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La grotta di
Sant’Angelo si apriva nella parete rocciosa al di sopra di Balsorano, portando
con sé la memoria di monaci, eremiti,
briganti ed assassini. Quel luogo mostrava
la suggestione del sublime come espressione divina della natura, lì si poteva
entrare
nella terra e pregare dal suo ventre, espiare i peccati e purificarsi nei
Fuochi Comuni. In corrispondenza delle festività di San
Michele e di San
Giuseppe l’accesso era consentito soltanto agli uomini, che si chiamavano tutti
come fratelli, così uniti nella
purificazione della preghiera collettiva. Il priore
del Santuario ci apriva con gentilezza le porte dell’ospizio adiacente, lasciandoci
percorrere i corridoi ricavati tra le rocce e le pareti, il refettorio, le
camere e tutti gli altri ambienti della struttura. Ci
sentivamo accolti e
fortunati, e ascoltavamo le sue affermazioni con la promessa di tornare. Le
recenti precipitazioni avevano
intriso di acqua la terra, che a sua volta
stillava sia nella grotta del Santuario che in quella delle Riconche, un’altra
cavità poco
distante, più impervia e suggestiva, resa accessibile grazie ad un
breve percorso attrezzato. Tra concrezioni naturali, e stalattiti e
stalagmiti
mozzate durante la guerra, piccole vasche naturali raccoglievano l’acqua sacra
ai giuramenti.
La chiesa di San
Michele Arcangelo a San Vittorino teneva oscurate le sue zone protette,
scendevamo nella cripta e nelle
catacombe, animando con la luce l’anima sacra
di quelle pietre buie. Quod vult deus,
e per volere di Dio, nel V secolo il vescovo
di allora aveva protetto il
sepolcro del Santo, le lapidi decorate mostravano maniere raffinate che
portavano alla luce i decori di
oltre millecinquecento anni. Nell’ombra si
aprivano i cunicoli e i colombari, quell’antico ipogeo paleocristiano era una
delle zone
più importanti dell’antica Amiternum,
le pareti spoglie ricavate nella roccia spesso si arricchivano di materiali di
risulta, con
capitelli, colonne e blocchi di pietra incisi, con cui avevamo il
contatto e la possibilità di azzerare la distanza di più di duemila
anni. Resti
di affreschi mostravano la bellezza venerata di giovani Madonne ed una Sant’Anna
Metterza, la simbologia di possibili
spade definiva la figura dell'Arcangelo Michele, caro ai Longobardi, mentre i colori dei panneggi vibravano ancora in
parte di toni accesi. L’umidità trasudava dalla terra creando gocce di condensa,
che investite di luce parevano comporre
vene d’argento.
Le acque del
Lago di San Domenico sfumavano i toni brillanti del turchese col verde ottanio,
mentre il grigio delle pietre
tutt’intorno modulava l’acqua con riflessi d’argento.
Le Gole del Sagittario, già bellissime della loro conformazione, si
arricchivano ulteriormente di quel luogo speciale, dove la bellezza della Natura
incontrava la dimensione sacra della scelta
dei Santi. Intorno all’anno Mille
una piccola cavità di quelle montagne veniva scelta dal monaco benedettino eremita
come
dimora, allora non c’era la diga e non c’era nemmeno la chiesa ad
abbellirne l’ingresso, ma c’era la sostanziale dimensione del
Sublime. Il ponte che conduceva all’eremo
portava incisi i nomi delle famiglie di Villalago, pareva che tutto il paese vi
fosse
coinvolto a portare memoria e contributo, e sentimento di appartenenza. L’ingresso
era abbellito da un portico con alcuni
affreschi di miracoli, da cui si aveva accesso alla chiesa che fungeva da anticamera del Santuario. Poche rampe di
scale
ricavate nella roccia trasudavano l’umidità della terra, si vestivano di
muschi e di toni scuri, e conducevano al giaciglio del
Santo. Un piccolo
cancello in ferro battuto proteggeva l’area sacra, la quiete, il silenzio, e
l’assenza di gente rendeva unica la
percezione di quel luogo che contava su di
sé la tradizione di mille anni. In passato anche qui, come a Cocullo, gli
abitanti di
Villalago portavano omaggio al Santo giungendo in processione con
la sua statua coperta di serpenti.