skip to main |
skip to sidebar
Sotto la linea di tracimazione dell’acqua pareva che tutto
si fosse fermato in uno strano limbo, il limaccio aveva imbiancato ogni foglia,
ogni ramo, ogni roccia, colorando orizzonti di distinte realtà, una dei toni degli
albori della primavera, l’altra del silenzio monocromatico di
fondali riemersi.
Piccole penisole riemerse prendevano slancio nel Lago di Bomba, dove il volo
raso di aironi cinerini ed altri uccelli accarezzava
il pelo d’acqua. Tra
pendii di argille scagliose e blocchi calcarei, il Fiume Sangro trovava la sua
pausa su questo enorme bacino artificiale.
La quiete prendeva i colori del
tramonto, si diffondeva nell’anticamera della notte, e contemplava i primi
bagliori delle stelle.
Monte Pallano conservava il suo fascino millenario immerso nella
quiete della natura, pacata e silenziosa, che accoglieva sui prati sommitali i
primi germogli di primavera. Il suo punto di vista era
mirabile e si apriva sia
verso la Val di Sangro e la Majella Orientale, sia verso il Molise e i Monti
dei Frentani, chiarendo con la sua posizione dominante la scelta delle antiche
tribù italiche che vi si stabilirono tra il
V e il IV secolo a.C. . Ci giungeva
l’eredità di maestose mura megalitiche, una magnifica testimonianza che un
tempo cingeva a protezione la montagna, e che ora si lasciava lambire soltanto a
tratti
dal vento, tra vecchi passaggi anonimi, custodi di ombre, che lasciavano
riecheggiare le antiche leggende sui giganti. L’antico abitato si pregiava di
un meticoloso sistema di drenaggio delle acque piovane,
con il piazzale progettato con pendenze e drenaggi che permettevano il
deflusso a valle dell’acqua, convogliata poi verso una condotta che tagliava il
lato corto del foro verso Nord-Ovest. Lo smaltimento
dell’acqua meteorica
dovette rappresentare un problema a giudicare dalle numerose canalette o
drenaggi con cui si tentò di evitare il ristagno dell’umidità negli edifici e
nei terreni circostanti l’abitato.
Diverse fasi costruttive sono state
riconosciute nel groviglio di ambienti e strutture murarie che circondano il
foro. È probabile che un primo impianto, caratterizzato da muri di spessore
maggiore degli
altri, abbia preceduto la monumentalizzazione del piazzale,
questi primi edifici furono rasati o fornirono la base per altri che ne presero
il posto, alcuni dei quali pavimentati in cocciopesto e spesso intonacati
internamente, a loro volta in qualche caso abbattuti e “ridisegnati” nelle fasi
successive. Costante comune alle costruzioni di Monte Pallano fu la tecnica
costruttiva, che impiegava pietre appena
sbozzate legate non da malta ma da un
terriccio sabbioso molto depurato, utilizzato anche come rivestimento delle
pareti. (Il testo in corsivo è tratto da un cartello informativo del
luogo).
Le conchiglie erano gli scheletri
del mare, trattenevano nelle loro spirali echi di memorie lontane, come i canti
dei poeti a noi cari. Il
tempo dapprima veloce era diventato inarrestabile nella
sublime constatazione del Trionfo della
Morte, rivivevo quei luoghi cercando il
punto di vista degli occhi del
Vate, scrutando il Trabocco Turchino e il Promontorio Dannunziano, ammirando
quella metafora di abisso che
mi si distendeva davanti ai limiti del cielo. La risacca
risuonava tra l’odore delle alghe, e con la sua dolcezza scarnificava le “ossa”
dei
vecchi trabocchi, logorati dall’ira del mare e dall’opera crudele del
tempo. Erano passati 130 anni da quando Gabriele D’Annunzio
trascorse lì una
sua estate, aveva vissuto quei lidi e contemplato quei flutti. Di trabocco in
trabocco seguivamo ora in bici la costa da
Casalbordino Lido fino ad Ortona. Su
un piccolo colle giacevano i resti dell’antica abbazia di Santo Stefano in Rivo
Maris, databile tra la metà
del V ed il VI secolo, protetta dai rovi di
biancospino che la rendevano inavvicinabile e custodivano, tra la dolcezza del
loro profumo, gli
antichi mosaici col simbolo dell’albero della vita. Sulla via del ritorno, alle nostre spalle,
scendeva la sera, che mano a mano accoglieva la
notte con gli ossequi della
bellezza del tramonto, mentre il Faro di Punta Penna scandiva il tempo con la
sua luce ciclica, prendendo
sempre più forza al pari della luce delle stelle.

La primavera meteorologica era
entrata, si sentiva nell’aria, si vedeva nel cielo disteso. L’umidità della Piana
del Fucino si raccoglieva nella
sua valle e con straordinari giochi di velature
alleggeriva tutte le montagne circostanti. Il suolo recava in dono la fioritura
dei primi
crochi, di una bellezza semplice e rigorosa, puntuale ad ogni
primavera. Alcuni cavalli pascolavano sulla quiete dei pendii mentre a monte si
tratteneva ancora l’inverno che con la sua mano bianca aveva livellato ogni
crinale. Monte di Canale dedicava al Sirente un magnifico punto di
vista sul
suo versante settentrionale, custode di antiche neviere. Il vento aveva
modellato quella materia bianca a seconda dei suoi flussi,
scoprendo sassi,
riempendo vuoti, cancellando pensieri. Tutto scivolava verso valle, nulla aveva
più importanza, solo la contemplazione della
bellezza.