lunedì 25 luglio 2011
domenica 24 luglio 2011
Corno Monte - Omaggio a Francesco de Marchi. Esposizione personale presso il Rifugio Garibaldi del Gran Sasso - 2230 m
Corno Monte era il nome originario della più alta vetta del Gran Sasso, a chiamarlo così fu Francesco de Marchi che nel 1573 ne rese ufficiale la prima ascensione. Questo personaggio così importante diveniva tema della mia esposizione personale presso il Rifugio Garibaldi, ritenevo giusto sottolineare in maniera didascalica la valenza storica del luogo, facendo ricorso a chi – prima di tutti – ne raccontava memoria. Il Rifugio Garibaldi, situato a 2230 metri di altitudine, era stato edificato nel 1886 e risultava essere il primo rifugio di tutto il Gran Sasso; la sua struttura manteneva da allora tutte le caratteristiche originarie, sottolineando ulteriormente lo stretto rapporto col passato. Di seguito riporto la Cronaca Ufficiale della Prima Ascensione di Corno Monte scritta da Francesco de Marchi, un trattato storico di grande importanza che segnava in definitiva la paternità alpinistica della più alta vetta del centro Italia. (Info mostra).
Il Corno Monte
cronaca della prima ascensione ufficiale di Francesco de Marchi
19 agosto 1573
“Hora descriverò e dissegnerò un Monte che è detto Corno, il quale è più alto che sia in Italia, et è posto nella Provincia d’Abbruzzo. Questo Monte è situato in una grand’altezza; dalla parte della Cittate dell’Aqquila si monta nove miglia, sempre puoco o molto, per arrivare ad una Collina che è alle raddici di esso Monte, che si dice Campo Priviti [1] . Il quale non [ha] uscita [e] l’Aqque e nievi che in essa cadono fanno un picciol laghetto, et in altri luochi fanno delle concavità circolarie profonde quendici e venti piedi, e chi più e chi manco. Questa Collina deve girar trè miglia all’intorno, e di queste buche ve ne sono migliaia [2] , le quali sumergano pietre di quendeci o venti libre l’una e più. Qui vi nasce un’Herba sotilissima e spessa, ma non cresce più d’un mezo dito ma è foltissima e ingrassa le pecore assai; e quest’è per il mezzo giorno. Il detto Monte era trenta du’anni che io desiderava di montarci sopra per levar le dispute dell’altezze di altri Monti. Così andassimo d’Aggosto l’anno 1573, il signor Cesare Schiafinato milanese, e Diomede dall’Aqquila. Et andammo ad un Castello nominato Sercio [3] , potemmo trovar nessuno che mai ci fusse stato, dico alla cima, ancorché questo castello sia il più presso verso l’Aqquila. Mi fu detto che vi erano certi Chacciatori di Camocce [4] che vi erano stati sopra, e così dimandai à molti di loro e non trovai se non uno, nominato Francesco Di Domenico, il qual’era stato alla cima un’altra volta, e malamente vi voleva più tornare. Poi pigliassemo du’altri che ne facessino compagnia, nominati Simone Di Giulio e Giovanpietro suo Fratello, li quali tutti non venivano troppo voluntierii ma a preghi e premi vennero. Così andammo a Cavallo fino a detto Campo Priviti, e qui cominciassimo à considerare per dove noi pottevamo andare alla cima di quest’assprissimo Monte, la qual montata passa veramente trè miglia e un quarto d’altezza, dico i migli di mille passi di cinque piedi l’uno; così missurai con uno strumento che io haveva con mè. Qui non si vede strada ne sentiere ne scala, ma à giudicio bissogna andare. Dimodoche cominciassimo à camminare dove io arrivai in una vena di pietra altissima dove io non potteva andar più innanzi se non havesse havute l’ali. Et così tornai in dietro con grandissimo pericolo e pigliai un’altra strada. Con la guida fussimo forzati tornare e pigliarn’un’altra, di modo che passammo per sino alla sommità del Monte dove non vedemmo modo da pottervi salire, ma Francesco ch’era la guida diss’ "io voglio andare in ogni modo". Et io dissi "dove tù anderai veniro anc’io". Et così cominciassimo à ramppiccarne con mani e piedi su per le pietre, le quali son fragilissime per le nievi e ghiacci che qui stanno tutto l’anno in alcuni luochi, ma ordinariamente nove mesi all’anno per tutto detto Monte.
Caminassimo un mezo miglio e ne fermammo a pigliare altra via perche per questa non pottevamo più salire. E così pigliammo la strada su la man manca, e ne ramppicassimo per certe vene di sassi, cosa horrenda d’andarvi. Et questo camino è in modo che l’huomo non si puol dare aiuto l’uno à l’altro perche bissogna stare attacato alla pietra con le mani, massime quando si è appresso alla sommità un terzo di miglio dove la pietra è fragilissima. Dico se l’huomo cadesse che vi son molti luochi dove verrebbe ducento e più bracci per aria. Poi trovarebbe punte di sassi e d’ivi potteria cader’altro tanto come fece un Frate l’anno 1572, che cascò et andò in pezzi.
Hora noi arrivammo con grandissima Fattica e ci ponemmo cinq’hore e un quarto a montare su’l detto Monte con tutta la solicitudine che noi pottessimo fare. Quand’io fuoi sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva che io fussi in aria, perche tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo. Così pigliai un Corno e cominciai à sonare, dove si vedde uscire fuori dalle vene di questo monte assai Ucelli, cio è Aquile, Falconi, Sparvieri, Gavinelli, e Corvi. Quali tutti volavano intorno al sasso, e mostravano quasi maravigliarsi di sentir sonare alla cima di questo monte, il quale si stà alle volte trenta o quarant’anni che non vi monta Persona, dico alla cima, per il pericolo che vi è, e puoco guadagno, perché in esso monte dalla metà in sù non si trova fil d’erba né altra cosa se non nieve come è in certi luochi, e gielo.
La sommità di questo monte è lunga per levante e ponente quindeci passi di cinque piedi l’uno, e per larghezza otto passi, e questa la messurai con la messura ch’io portai, cio è una corda. Nella cima vi sono trè pietre d’altezza di due braccia e mezzo; l’una dall’altra è lontana due braccia; paiano quasi quadroni di pietra. Così intagliai il nome mio nel più alto con uno scarpello portato à posta, et il signor Cesere intagliò il suo in un altro, et il simele fece Diomede nel terzo sasso. Hora io piantai il mio strumento da messurare l’altezza de’ monti che danno disputa qual sia il più alto.
Vi è il Corno Vecchio che è minore; vi è il Monte di S.to Niccola che è minore. Questi trè monti, cio è il Corno Monte, Corno Vecchio, Monte San Niccola, son sitovati sopra d’un’altr’altissima montagna, et son separati l’uno dall’altro. Poi messurai il Monte Cefalone, il Monte Pizuito, il Monte Della BruzaMonte Zìane. Questi stanno per ponente à detto Corno, e per levante gli sta San Niccola e l’altissimo Monte Camese. Questi sono appresso, chi sei, chi otto miglia, e chi diece à Corno Monte. Hora dico che tutti sono più bassi assai che’l detto Corno Monte per levare tutte le deferenze e dispute che sopra di esse si dicano e fanno.
E perché molti cacciatori vanno à tirare con gli archebusi alle camoccie in detto monte, vanno al piede o montano al quanto sù per il monte. Tutti quelli che sono stati alla cima dicano che vi è una Fontana in cima. Dico che non vi è Fontana nessuna, ma che vi è bene un gran vallone tra il Monte di Santo Niccola et il Corno Monte, dove sempre vi è la nieve alta quindeci o venti piedi, e più in alcun luocho dove la nieve e ghiaccio sta perpetuamente. E quest’è una quantità d’un grosso miglio di lunghezza, e di larghezza più di mezo miglio, della qual sempre puoco o assai se ne disfà, e quell’acqua cala giù per diversi precipitii, li quali fanno poi rarissimi Fonti al piede della montagna, dove sono i tre monti. Sotto com’ho detto vi è la Fontana della Storra. Sotto questa vi sono altre sette Fontane copiosissime d’acqua. Poi in un altro luoco detto Le Pratarie vi sorgano altre quattro Fontane, e queste sono per lo sententrione, e per Levante la Fonte della Torre, la quale ha grand’acqua. Poi la Fonte di San Niccola, e la Fonte di Forcola. Queste Fonti formano Fiumi Reali, com’è il Tronto, Humano, et alcuni altri minori di questi.
I Castelli che sono intorno a questo Corno Monte sono questi: La Pietra Camea verso ponente; Messola per levante; Fano Troiane per lo sententrione; Cerquesto, i Cannini, e Lieveane, pur per lo sententrione; e per lo mezo giorno vi è Sercio e Felete, li quali sono dentro di Otto miglia all’intorno di questa montagna. Poi per levante e ponente vi è una pianura nominata Campo Radduro [5] nella sommità d’altissimi monti, la quale è lunga dodici miglia, e in alcun luoco larga due miglia, et nel più stretto è un miglio e mezzo, dove son Fonti d’acque buonissime e laghetti fatti dalle dette Fonti. In tra l’altre vi è la Fonte di S.to Stefano, e quella della massima che ann’acqua assai e bonissima.
In questa pianura vi vengano gran quantità di Bestiame à pascolare, massime pecore. Dico che passano sessanta o sett’anta mila pecore che qui vengano à pascolare. Cominciano ad intrare il dì San Giovanni, e vi stanno per tutto luglio, poi bissogna partire per lo gran Freddo che vi fà. Questa pianura trà altissimi monti fa un bellissimo vedere. Quando i pastori vi sono con gli animali à pascolare par esser’uno essercito grossissimo à vedere tante capanne e tante tende, massime la sera quando tutte [h]anno acceso i Fuochi; poi a vedere le mora di pecore, capre, cavalle, vacche, e buovi, dico che è cosa rarissima da vedere si come si puol considerare nel dissegno.
Addunque questo monte è veramente il più alto e il più orrido di tutti i monti d’Italia perche sendo alla cima si vede il Mare Adriatico, il Ionico, et il Tirreno, et se non vi fussero tanti monti trà mezzo si vederebbe ancora il Mar Ligustico. Dico che vi son tali precipitii, che passano cinque miglia dove non possano andar Huomeni, ne Annimali se non Ucelli; dicendo che Chi lassa cadere una pietra giù per una di quelle vene che per piccola ch’ella sia ne muoverà tante de l’altre che faranno Tuono per un’hora che parerà cosa orrenda e spaventosa.
Quando andassimo in cima di questo monte era sereno, et il sole ardentissimo, con tutto questo era freddo, dico grandissimo, in cima, e per segnale havevano un fiaschetto di vino il qual’era gelato sopra et il resto era freddo come un ghiaccio. Et per lo freddo che havevamo ne metessimo al ridosso di quelle pietre al sole a far colatione, ma puoca, per che Chi vuole andare e tornare bissogna esser sobrio e non haver mancamento di vertiggine nel capo, ne dolori nelle mani ne alli piedi, e haver buona vista e dispositione di vita, altrimenti non le riuscirebbe l’andare, ne manco il tornare che è più pericoloso, avvertendo che non si puol andare se non per tutto il mese di luglio, et per fina a mezo aggosto e non più.
Al montare di questo monte vi sono questi pericoli: si fusse gran vento ti getteria giù; si piovesse un puoco sdruciolaresti giù, et si fusse nebbia non vederesti dove tù andassi, et se vi fusse nieve non vi è ordine andarvi, et si fusse ghiaccio molto peggio. Di questi pericoli ve ne son quasi tutto l’anno. Addunque Chi fortificasse in questo monte sarebbe per difenderse il puoco numero contra alli molti. Dico al pari di qual’altra Fortezza che sia posta in altissimi monti, dicendo che questo Corno Monte non sarebbe inferiore di Fortezza alla innespugnabile Pietra D’Orini che è in su’l Fiume Indo in Assia maggiore.
Quando che fussimo tornati al basso andammo a vedere una Fontana che è due miglia lontano da questo monte, la quale si dice Fonte Gelata, dove stà tutto l’anno il ghiaccio sopra, et così ne tagliammo con la cetta, et era grosso un palmo. Dico che’l giorno seguente era gelata detta Fontana. I Pastori che vanno per acqua bissogna che portino sempre la cetta per tagliare il ghiaccio si vogliano acqua. Questa Fontana è sotto il Monte Pizzuto.
Poi ce ne venissimo ad una calata d’una montagna nominata la Portella, la qual’è proprio una porta fatta da due penne di monti, la quale cala quattro grosse miglia per venir à Sercio. A questa Portella si vede una cosa, che non trovo in luoco nessuno, dove gl’huomeni calano giù di questa montagna con tanta velocità, che gl’Ucelli non possano volare più forte, e questi sono d’un Castello nominato La Pietra Camea [6] , li quali stanno per sententrione al Corno Monte come di sopra. Questi vivano di mercantia di panni grossi, li quali son nomati carfagni. Hora questi l’invernata quando son le nievi alte sei o otto braccia, et in tali luochi più di quindeci, massime nei valloni, hora questi passano alle raddici di detto monte per la valle che fà il Corno e il Monte Cefalone, et arrivano a questa Portella.
Qui gettano i ruotoli del panno giù per un vallone ripidissimo, et quelli panni calano giù sopra la nieve gielata, e vengano trè miglia, et alle volte trè e mezzo, prima che si retenghino. Paiano sassi che si dirupino giù per quella montagna. Poi gl’huomeni si pongano a sedere, e si mettano trà le gambe l’uno l’altro bene stretti insieme, et [h]anno un bastone tra le gambe con un ferro al capo, et alli calcagni si pongano certe punte di ferro lunghe un nodo di dito.
Questi si lassano venir giù per quel vallone dove i panni vanno innanzi loro. Dico che questi calano trè miglia e mezo in un’ottavo d’hora su per la nieve ghiacciata, avvertendo che quanti più huomeni saranno insieme, tanto più velocemente calaranno. La causa è per il magior peso, ma non vogliano passare il numero di dieci, ne meno che sei à chi vuol venire più seguramente, dicendo che si uno si stacasse da gli altri, non vi è ordine di potter più à rivarsi, ne essi possano aspettare si ben volessero per amor, della gran fuga ch’anno presa sopra la nieve ghiacciata. Dicendo che si uno si stendesse sopra la nieve non bisogna che pensi più di pottersi assentare per la gran velocità del calare che tiene, e quel porterebbe pericolo de non s’amazzare, perche il capo percuoterebbe sù per la nieve, et così verebbe morto al basso si come se ne è trovati alcuni.
Però si pongano tra le gambe l’uno à l’altro et abbraciati stretti insieme con un braccio, con l’altra mano tengano un’hasta sotto la coscia manca, e quando si vogliano rettenere al quanto dalla grandissima velocità alzano la mano, e la punta del ferro commesso nell’hasta raschia la nieve e ferma alquanto la velocità, et voltano la sola del piede alla nieve, e quelle punte che hanno sott’all’scarpe raschiano et rifermano alquanto la velocità loro. Et se non havessero quest’hasta e punte di ferro sott’all’scarpe dico che pericolariono, massime quando la nieve è gielata et che sopra vi sia piovuto [e] fa una vetriata sopra la quale fà venir gl’huomeni tanto furiosi al basso che quasi perdono la vista. Però con quelli strumenti di ferro rittardo[no] alquanto la velocità della calata.
Questi ritornano con fattica di montare in una giornata quello che fanno in un’ottavo d’hora, [7] et portano pericoli di morte rispetto ch’alle volte si staccara un puoco di nieve della Portella, et quella fà un ballone, o un montone, e li coprisse sotto, et ivi muoiano. L’anno mille cinquecento et sessanta nove, dicc’otto huomeni tornavano sù per la montagna, e così si staccò una palla di nieve et gli affogò tutti. Son sepulti à Sercio. L’anno mille cinquecento settant’uno un Padre con due Figliuoli morirono pur al ritorno all’in sù. Vi era un altro con essi il quale restò sotto la nieve trè giorni vivo, si cavò e visse molt’anni dapoi, ma haveva persi i piedi. Questo haveva una pellicia et una cappa carfagna et haveva un Zaiino con pane e cascio il quale mangiò là sotto. E mentr’era cercato trovarono il Padre con i due Figliuoli morti. Et trovarono questo vivo. L’anno sett’anta trè tornavano diec’huomeni con quattro donne e quando furono sù in cima passata La Forcella si levò una Tempesta di nieve et vento grandissimo con un freddo grandissimo dove morì un uomo, e una donna restò dietro. Quella si trovò morta in piedi sotto la nieve.
Questi pericoli bissogna passare Chi vuol’andar’e venire da quel Castello Pietra Camea all’Aquila, dico d’inverno. Ancora vi è pericoli la state. L’anno sett’anta trè il giorno dopoi che noi fussimo tornati giù dal Corno, che fu il Dì venti d’Agosto, venne un’acqua con Tempesta e vento tanto grande e furiosa che amazzo dieci cavalli [e] dodeci buovi che pascolavano in detta montagna della Portella. I guardiani si salvarono in una piccola grotta, e con fattica assai. Tanto fu grande il vento, che portò via i montoni del grano che erano falciati, dico in modo chè furono persi detti grani, e questo fu al piede della detta montagna della Portella. Hora vedasi che passi son questi per voler andar alla cima di detto Corno Monte. Tornando à gl’huomeni della Pietra, se non vogliamo fa questa strada à tornare à casa, bissogna allungarla una giornata di più per mala strada, ma non pericolosa com’è questa. Del che quasi tutti tornano per la strada lunga per non tornare per il pericoloso Passo della Portella sopra il Castello di Sercio.
Alli 20 d’Aggosto 1573 essendo nel Castello di Sercio volsi veder la grotta Amare [8] , la quale è una Speloncha da vedere. Questa è al piede di quel monte che fà la Portella sopranominata. Vi era per guida Don... e Don... preti ch’abitano in quello Castello. Poi vi era uno Messer Sebastiano Malacaccia, gentilhuomo Aquilano, e così pigliammo altri con noi, à tal che portassemo quindici torcie da vento, le quali accese che furno in La Grotta parevano Candele d’un’quattrino l’una per l’oscurità e aria grossa che in essa Grotta si serra. Hora l’intrata è per Levante, la quale cala giù per Lastroni, chi di pietra, chi di ghiaccio, fatti e mescolati con arena, dal principio insino al fine si camina un’hora e un quarto. Così stessimo noi con fare diligenza, et sempre si cala come se si andasse giù per una ripida scala. In questo calare si truova alle volte dé luoghi che bisogna andare con mani e ginocchi per terra, perche non si può passar altrimenti per la strettezza del Camino, et s’andarà trè, quattro, e più canne.
Dico che vi sono delli luoghi che con la panza per terra bisogna passare. Vi son delle caverne che saranno di quattro o sei Canne di Diametro e chi più e chi meno, dove si vedono certe cose fatte dalla natura, che paiono tronchi di Colonne fatti di ghiaccio e arena.
Et di sopra si vede certi ghiaccioni lunghi chi tre braccia e chi dua più o meno, secondo i luoghi c’hanno acqua che trappana per essi Lastri, e son grossi come il braccio e gamba d’un huomo. Et di questi ghiaccioni ve ne sono le migliaia dupplicate [9] .
Nel calare si truova una fontana larga un’braccio, e fonda mezo. L’acqua è chiara et stillata, et è buona da bere, ma è freddissima. Vi è una gran pietra da un lato che la cuopre alquanto, la qual è tutta coperta di ghiacci fatti à punta di Diamanti; paiono pietre brilli che si pongano in gl’anelli d’oro, ma son fragilissime.
Poi si cala circa à 100 Canne e si truova un’acqua che corre velocissimamente, ma non può essere più d’un braccio in quadro. Quella esce trà certi lastroni e subito si perde trà altri lastroni di pietra. Questa corre all’ingiù.
Poi si cala circa 120 Canne dove si truovan due laghi d’acqua stillatissima. Il primo lagho può esser lungo otto Canne, e largo quattro con un’entrata à uso di porta larga una Canna, e anta però più.
Et più inanzi vi è un altro lagho per la metà di questo, lontano cinque o sei Canne, et per passar da un lagho all’altro bisogna passar per un luogo stretto due palmi, ma bisogna andare con mani e ginocchi per terra, cioè sopra il ghiaccio, cosa pericolosissima da non cadere nel lagho, dove è l’altezza dell’acqua più di venti Canne.
Io misurai l’altezza dell’acqua alla ripa con una corda e pietra, e trovai nove canne d’altezza d’acque alla ripa del lago, ma mi dicano che nel mezo passa 20 Canne. Dicano che l’altro lagho è molto più profondo, il qual non potessimo misurare, perché l’acqua era cresciuta tanto che non si poteva passare da un lagho à l’altro, se non una parte si poteva andare, poi al ritorno bisognava ritornare à dietro senza voltare per la strettezza del Camino, così incontrò à me. L’acqua di questi due laghi non se gli può soffrire le mani dentro per la sua freddezza. Gli mettemo di fiaschi di legno pieni di vino e in un credo diventaro fredissimi in modo che il vino perdè il sapore.
A’ questi laghi io scrissi il mio nome e gli feci una gran’Croce in la pietra con un Piccone. Qui facemmo colatione à Lume di 15 torcie da vento, le quali non faceano se non pochissimo Lume, per l’aria grossa e scura chè si serra in questa Caverna, la quale si stima sia stata fatta da Terremoti, perché l’ha più entrate; ma non si può passare se non per una, per andare trovar gli due laghi, alli quali quando io fui gionto tolsi un Corno d’Inghilterra e cominciai à sonare quella tuba; lo tuono che faceva quel Corno pareva tuono del Cielo per il rimbombo che faceva in quella profonda tomba, di modo ch’io lassai di sonare per il grandissimo rumore che faceva, temendo che non si movesse un di gli lastroni. Perché movendone uno penso che se ne moveriano de molti migliaia, perchè fariano come fanno i matoni posti in piedi presso l’un’l’altro, che cadendone uno urta l’altro, e così cadeno tutti.
Così poteva incontrar à noi, et se per disgratia avvenuto fosse questo, ventimila huomini non potriano soccorrere in un mese, massime se l’huomo fosse giù à i laghi come eravamo noi. Quelli che restorno fuori [e] stavano alla bocca d’essa Grotta dicevano che pareva che là giù fosse gli tuoni del Cielo, e dubitavano d’alcuna distratia.
Un’ di quei preti che venne nella Grotta entrò in una bucca che bisognò tirarlo fuora per li piedi dove trovò l’ossa d’un morto, e così portò fuori il capo d’un morto, cioè l’ossa pelate. Poi un’altro entrò in certe alte caverne e trovò l’ossa d’un morto, e portò la coccia del capo d’uno. Mostra che quelli morissero là per essergli spenti i lumi, perche ci vuol lume e huomeni prattichi all’andare, e più al tornare per le diverse aperture che si truovano.
Dico che trattaria dell’impossibile à nissuno uscire sènza lume se ben vi fosse stato più volte, ne manco intrarvi. Il pericolo è al ritorno di non falare la uscita perche vi è dell’aperture molto maggiori che non hanno poi uscita fuori. Però si perdono, e al calare bisogna andare con mano sempre ben attaccati, se non, potrete cadere otto o 10 Canne alla volta giù per li lastroni di ghiaccio e arena mescolati insieme. Il qual ghiaccio è rovido; se fosse lisso non sarebbe possibile potervi andare, perché presto si travarebbe l’huomo al fondo; almeno 200 canne potria cadere di lastrone in lastrone, che son fatti di diverse figure.
In questa oscurissima Grotta precipitosa si vede figure d’huomeni fatti dalla natura, altre d’animali, et altri [sic] di serpenti, ma Colone, Candele, e Torcie, e lastroni infiniti. Et questo procede dall’acque che colano di continuo. Qui non vi è grandissimo freddo come pensavo, sendovi il ghiaccio continuo; penso che io non lo sentivo per la faticha che vi è nell’andare, et più al tornare.
Hora dico che l’huomo partendosi di quel profondissimo e oscuro luoco dove sono gli due laghi, e venir di sopra, quando l’huomo arriva fuori dove l’aria si vede li par essere uscito dalle tenebre, di modo che chi andarà in questa Grotta o profonda Tomba li parera d’essere nelle tenebre, et chi andarà in cima del Corno Monte gli parrà andar sopra le nuovole”.
Francesco de Marchi
NOTE:
1. Campo Priviti: Campo Pericoli.
2. Concavità circolarie profonde quendici e venti piedi: Inghiottitoi di doline calcaree di cui sono pieni tutti i pianori attorno alle cime importanti del Gran Sasso.
3. Sercio: L’attuale paese di Assergi, appena sotto il versante sud del Gran Sasso.
4. Camocce: I camosci, che un tempo popolavano, numerosi, tutti i versanti del Gran Sasso.
5. Campo Radduro: Campo Imperatore, il vasto altopiano, conosiuto anche come il "piccolo Tibet".
6. Pietra Camea: Pietracamela, sotto Prati di Tivo, sul versante nord-ovest del Gran Sasso e sotto il Corno Piccolo.
7. ... Questi calano trè miglia e mezo in un’ottavo d’hora...: I montanari scivolavano per circa 1100 m di dislivello dal Passo della Portella (m 2260) a Fonte Cerreto (m 1120).
8. Grotta Amare: Grotta a Male, profonda 81 m (oltre 100 m, se si considera il fondo del lago della Sala De Marchi), nei pressi di Assergi.
9. Ghiacci fatti à punta di Diamanti che paiono pietre brilli: Sono le stalattiti e le stalagmiti che spesso si fondono in colonne di varia altezza e dimensione.
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domenica 17 luglio 2011
Monte Morrone da Passo San Leonardo
Il vento fletteva i fili d’erba, pettinandoli con cura in una armoniosa percezione visiva. Ogni cosa pareva cullata da un canto, tessuto con cura insieme a pollini e farfalle.La Majella sussurrava una ninnananna materna, il calore del sole vibrava, mentre il vento raccoglieva tutto e lo trasportava nei piani superiori del cielo. Due anime si lasciavanoaccarezzare dai pensieri di chi gli rendeva memoria, rischiaravano il percorso di chi proseguiva, e guardavano chiunque dritto nel cuore. Quella tenera notte eterna era fattadella luce del sole, del profumo dei fiori, e dell’amore che anno dopo anno rinnovava il verde dell’erba. Tutto scivolava lungo quei morbidi pendii, dai pollini alle preghiere ogni cosa siraccoglieva e saliva, ascendeva verso la più alta dimensione celeste, fino a raggiungere la cattedrale della volta del cielo. Pregavo anch’io per Diana e Tamara.
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domenica 10 luglio 2011
Corno Piccolo per la via ferrata Danesi
Le lisce pareti di Corno Piccolo svelavano passerelle verticali e compatte. La luce del mattino rischiarava la pietra percorsa altrettanto dalle voci dei primi alpinisti. Il sentiero della viaferrata svirgolava tra i sassi e le fessure dove i ferri ci aiutavano. Ritrovavo le stesse emozioni della prima volta, negli stessi passaggi, negli stessi scorci. Quanta memoria su quelle pareti,quante vie e quanta gente impiegata a percorrerle. Tutto si consumava in una progressione perfetta, ammiravo quei rocciatori eleganti e pensavo ai padri di quei percorsi verticali, aquali emozioni uniche e incerte nell’aprire le prime vie, senza sapere con certezza dove disporre l’appiglio migliore. Stavolta sulla vetta non c’era nessuno, solo il movimento del vento che accompagnava la pietra.
domenica 3 luglio 2011
Il Campanile di Val Montanaia
Il Campanile di Val Montanaia somigliava ad un’enorme conchiglia posta in verticale, la guardavamo alle sue spalle con dietro di noi tutto l’anfiteatro dolomitico strutturato da guglie dipietra. Era molto emozionante sentirsi avvolti da quell’abbraccio, si sentiva non solo il contrasto visivo degli aspri tagli della roccia, ma anche la dolcezza di quella straordinaria condizioneavvolgente. Intorno a noi le cadenze di tanti dialetti differenti tessevano un unico idioma, noi come molte altre persone godevamo dell’erba e dell’aria di quel palcoscenico sul mondo,assistevamo ad uno spettacolo bellissimo concesso da una Natura clemente, quel luogo apparteneva a tutti, non si risparmiava, accoglieva e si dava.
sabato 2 luglio 2011
Monte Toc e il Lago artificiale del Vajont
Il pensiero di quella notte mi inquietava tanto da animare dentro di me un mondo sconosciuto, sapevo che non potevo realmente comprendere quell’orrore per non averlo vissuto, tuttavia mi era inevitabile non provare ad immedesimarmi. La galleria d’accesso apriva e chiudeva quello che rimaneva della sera, e da ognifinestra si distingueva il nuovo profilo della montagna: era terribile. Provavo un certo orrore nell’immaginare il silenzio dei pochi momenti prima della frana, ogni cosa si era certamente ammutolita nell’indagine sospesa di capire cosa stesse succedendo. L’aria doveva essere strana, silenziosa e ammutolitapure dal latrato dei cani e dal canto delle civette. Poi il boato e l’abisso. Quando i rumori sono tanto forti superano la soglia del dolore diventando così assordanti da urlare solo silenzio. In una notte di ottobre un’onda gigantesca passava sopra il paese di Casso, senza lambirlo nella parte più alta, era questa l’immagine che non riuscivo a togliermi dalla mente: nulla poteva essere più surreale di questo inquietante spostamento di elementi, come se la realtà e il sogno si fossero sovrapposti e vivessero un’eterna notte senza fine. Quella profonda volta del cielo era rischiarata dalla luna piena, i toni di blu erano nella mia mente, e come cave profonde scoprivano le stelle.
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La Tofana di Rozes e la Galleria del Castelletto
Questa per me era la prima volta che andavo sulle Alpi. Le vedevo piccole avvicinarsi in lontananza, tanto da riuscire a contenerle tra le dita delle mani. Mano a mano che mi avvicinavo a lorocrescevano in progressione, assumendo tutta quella maestosità che gli era propria, quella grandezza solenne e incontrastata che lasciava senza fiato: erano dei veri monumenti della Natura, delleopere d’arte scolpite di una bellezza sublime. I vari strati di umidità stemperavano i colori di quei massicci, tanto da alleggerirli nella percezione d’insieme, tutto diventava poetico eimpalpabile, aereo e bellissimo. A guardarle dal basso non appartenevano né al cielo né alla terra, parevano un tramite ultraterreno per il divino, una zona neutrale dove tutto potevamanifestarsi ed ogni cosa si conteneva prima di svanire. Come lame affilate contrastavano il cielo nella maestosa comprensione di elementi differenti, trovavano il contatto, seguivano la linea, egraffiavano. Il mio Gran Sasso lo portavo nel cuore, ritrovavo nel selvaggio quanto più mi era caro, ma, oltre ad ogni limite conosciuto, seguivano altrettante estensioni della Terra. LaTofana di Rozes vibrava di calde tonalità, così imponente sopra le nostre teste appariva come un cristallo meraviglioso. Il sentiero per la Ferrata Lipella mano a mano incastonava tra le pietre letestimonianze della Prima Guerra Mondiale, con le sue trincee composte e silenziose inserite tutt’uno con la montagna. Il legno marcito da quasi cento anni tratteneva il ferro dei chiodi come unricordo lontano e antico della memoria dei padri. Salire quei ferri è stato come ascoltare un racconto sussurrato direttamente dalla pietra, ci si inoltrava in un buio materno scavato dai compressori,dove ci si sentiva accolti, protetti, guidati da chi prima di noi aveva aperto quei passaggi. Quella notte forzata accostava l’anima a quella della montagna, ed una volta fuori anche il silenzio delCastelletto assumeva la curvatura di un canto. Dal cielo una leggera nevicata ci accoglieva a dispetto di luglio, queste erano le Dolomiti d'Ampezzo, non potevo conoscerle in maniera più bella.
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