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Sulla cima di Monte Calvo, circondata da panorami familiari,
portavo un saluto all’anno appena trascorso. La parvenza dell’inverno giaceva
soltanto sulla parte culminale della montagna, le miti temperature ed il
riverbero del sole illudevano alla primavera che sotto le vallate già
pareva
percepirsi. Le lingue di neve giacevano nelle vallette e nei fossi, mentre a
nord era tutto immacolato nel freddo fermato dall’ombra.
Salivo dalla Jubbera
e scendevo a ridosso della Costa Serpentana fino ad intercettare la carrareccia
per Fonte Crovella, vi era molta acqua e
un getto importante. Un altro anno era
trascorso, mi piaceva salutarlo così, con la gratitudine per tanta bellezza da
contemplare, lungo
sentieri rasserenanti, quiete dell’anima, semi di
riflessioni.
Dal
piccolo lago di Santo Stefano di Sessanio partiva una comoda via per la Piana delle Locce, che attraversava in parte i contrafforti
meridionali minori del Gran Sasso, tra modesti avvallamenti e rilievi che mano a mano salivano alla volta della montagna. Faceva freddo,
ma si stava bene, a tratti vi erano precipitazioni di neve tonda che andavano e venivano a seconda del vento. La Piana delle Locce ci
sottostava con la geometria
squadrata dei suoi campi, la circolarità del piccolo lago, la sinuosità delle
strade che solcavano a vivo la sua
terra nera. Ai margini del vasto altopiano
si ergeva l’edificio di Santa Maria ai Carboni, Santa Maria de Corovonis, grancia cistercense di
Santa Maria di
Casanova. L’antica struttura risalente al XII secolo, ampliata e riadattata
all’uso di pastori e contadini, verteva in
decadenza. La piccola cappella e le
rovine del suo altare si davano al cielo così prive di copertura, esposte
all’intemperie mostravano
un’inesorabile declino a dispetto dell’importanza
contata nei secoli. Poche scritte sui muri restituivano la memoria dei
viandanti. Alle sue
spalle una delle tante grotte agro-pastorali si inoltrava
nella terra, un caldo riparo che manteneva la sua funzione sospendendo lo
scorrere
del tempo. Quella de Le Scoppie era una collina molto particolare, da
alcuni punti di vista si ergeva a forma conica sulla bellissima vallata, si
ornava di molteplici buchi contornati
di rocce, antichi ripari scavati dall’uomo nel tenero conglomerato. Tornavamo a
Valle Chiusola per
cercare la Grotta di San Michele, questa volta facilmente
individuabile dal basso della valle. Non vi erano tracce del culto
dell’arcangelo,
soltanto il nome definiva l’area sacra. All’interno il tepore
della grotta ci accoglieva mentre fuori le nuvole si agitavano, la neve che
cadeva
mossa dal vento presto avrebbe imbiancato ogni cosa.
“Passano gli anni ma alcune cose rimangono eterne, senza
tempo come la neve, che nonostante lo scorrere degli inverni non trova né
principio
né fine: la neve di allora è la stessa di adesso e mi piace pensare
che trattenga la sua memoria”. Cinque anni fa scrivevo queste parole in
occasione di una mostra su Natalia Ginzburg, pensavo alla neve come elemento senza
principio né fine, scrigno di memorie, essenza
universale pronta ogni volta a
scomporsi e ricomporsi portando con sé all’infinito la memoria del mondo. Il rumore
della neve era quello del
silenzio che lasciava voce ai pensieri, me ne
immergevo nel bosco, inoltrandomi nella moltitudine dei faggi fino al Rifugio del Campitello.
Ritrovavo il piccolo riparo intatto rispetto l’ultima volta in cui c’ero stata,
il piccolo camino, la porta incisa di scritte apribile in due
passaggi, il
pavimento di pietra e l’essenziale. La vista sull’omonima valle si velava di neve e persino il sole dispergeva i suoi raggi al cielo,
perdendo sì
forza ma estendendosi con la sua luce nel riverbero del bianco.
Dopo la pioggia e prima dell’imbrunire, sui declivi bagnati
d’acqua e di pensieri, lungo i sentieri rasserenanti della montagna di casa,
tra pini,
querce e arbusti selvatici. Tra il giorno e la notte si compiva la
predisposizione al riposo, la distensione visiva della quiete che fletteva
le
luci pomeridiane ai toni crepuscolari, su lontananze sempre più incerte, dove
piccole luci artificiali mano a mano si accendevano come
stelle nella notte.
Il Gran Sasso copriva e scopriva le sue sommità con giochi
di nuvole e vento, mentre nel basso di Campo Pericoli i dolci declivi si
velavano a
malapena di aria umida. Gli avvallamenti più profondi custodivano
ancora i residui dell’ultima sporadica nevicata prima della stabilità
dell’inverno,
punti bianchi come perle sul manto prezioso della conca dorata. Seguivamo i
sentieri più semplici nel cuore del Gran Sasso,
raggiungendo prima Monte Aquila
con i suoi affacci panoramici e poi il Rifugio Garibaldi. La bellezza delle
prospettive era nel gioco delle
nuvole che svelavano profili rocciosi e lontananze,
mentre il vento danzava confondendo i nostri silenzi.