skip to main |
skip to sidebar
La leggenda narrava che Atessa, nata dalla conurbazione
degli abitati di Ate e Tixa, un tempo era afflitta dalla presenza di un drago
che divideva i due paesi, venne ucciso da San Leucio e da allora un’enorme
costola di osso faceva da testimonianza dell’accaduto.
Il culto di San
Leucio, nativo di Alessandria d'Egitto, evangelizzatore e primo vescovo della
città di Brindisi, viene dapprima diffuso, tra il IX e X sec. nelle regioni
centro-meridionali dai Longobardi di Benevento e poi veicolato lungo le piste
armentizie con la grande ripresa della transumanza orizzontale, a partire dal
XIII-XIV sec.. Il racconto fabuloso delle origini di Atessa si sovrappone
fascinosamente ai documenti e ai segni della storia, legandosi all'opera
salvifica svolta da San Leucio, ricordato come uccisore dell’immane dragone che
divideva i due opposti borghi altomedioevali di Ate e di Tixa e che esigeva,
novello minotauro, vittime e sangue umano. La chiesa dedicata a San Leucio, per
ricordare il miracolo e tramandare la sua devozione, segna anche il processo di
conurbazione di questi antichi abitati e la nascita di una sola città unita e
pacificata: Atessa. La costola di animale preistorico presente nella teca
richiama la trama del mito eziologico, nelle cui trasparenze si svelano
significati e simbologie: San Leucio, portatore di luce spirituale, come suona
il suo nome, rappresenta il bene che sconfigge il male, il drago della leggenda
e probabile proiezione anche delle paludi che infestavano il territorio,
bonificate dai padri Basiliani, a cui la tradizione ascrive la primitiva cella in
onore di San Leucio. (Cenni storici a cura della Prof.ssa Adele Cicchitti). Testo
tratto da un cartello informativo posto all’interno della Cattedrale di San
Leucio di Atessa.
Una piccola grotta, nascosta nel fitto della vegetazione, custodiva
noduli di selci sferiche, caratteristica dovuta alla conformazione del
territorio, che in quella fascia pedemontana era costituita da
conglomerati,
brecce e elementi calcarei. Il fascino del Morrone era nella sua natura
selvaggia e poco conosciuta, dal Castello Cantelmo
ammiravamo la bellezza dei
paesi sottostanti della Valle Peligna, con
un riguardevole punto di vista con le
altre roccaforti, punto di forza in
passato per il controllo del territorio. Un
recente restauro aveva messo in sicurezza le pietre che definivano un
importante impianto
triangolare con il mastio a monte, pietre regolari e ben
squadrate definivano le restanti mura erette oltre lo scorrere del tempo,
giunte
a noi con la valenza di un passato molto importante. Ma oltre ai luoghi
noti ve ne erano molti altri poco conosciuti, mi colpiva la singolare bellezza della Masseria Santa Croce, che raggiungevamo
attraverso un comodo sentiero dal
Rifugio del Lupo. L’antica costruzione era stata restaurata
negli ultimi anni e
risultava essere una delle prime masserie fortificate
d’Abruzzo, a sottolinearne
la funzione difensiva erano le piccole feritoie
ogivali e le mura invalicabili.
Interessanti informazioni sulla masseria sono riportate in questo articolo.
Una ripida mulattiera saliva da Lisciano (frazione di Rieti) in direzione di
Case Macchiole, un paese fantasma arroccato a mezzacosta sul
versante sud di
Monte Calcarone. Gli ingressi senza più porte e le finestre e i tetti liberi al
cielo erano varchi di memoria, aperture di
riflessioni rivolte ad un passato
lontano ma nemmeno troppo remoto, dove scorticati intonaci azzurri sussurravano
ancora l’espressione
dei ricordi. Le edere vi dimoravano tenendosi salde ai
muri e fagocitando gli ambienti, tra equilibri precari di silenzio e abbandono.
Non vi erano voci, soltanto il rumore del nostro passaggio, mentre a terra i
fiori rinnovavano la bellezza della primavera e la ciclicità
delle stagioni,
che anno dopo anno stringevano sempre di più in pugno ciò che ne restava.