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Il sentiero dalla Valle d’Arano trovava continuità nella
neve soltanto ai Prati del Popolo, da lì in poi un’immensa coltre bianca
ammantava
uniformemente i morbidi pendii meridionali del Sirente. Tutto si
infondeva di bianco e d’azzurro, grazie al riverbero del cielo limpido in
grado
di definire lontananze e con solo pochi accenni di nuvole. Mano a mano che
salivamo mi piaceva osservare la Piana del Fucino, che
delineava i suoi campi
coltivati come una geometria scomposta di tasselli cromatici perfettamente incastonati
tra loro, variati di
sfumature differenti sotto i riflessi della luce. Il lungo
tragitto si concludeva sulla cima, strapiombante a Nord, all’ombra di cornici
sospese.
Dall’antica Via Cecilia riprendevamo il percorso per San
Silvestro di Pietrabattuta. Ricordo ancora l’emozione della mia prima visita
solitaria in quel luogo percorrendo l’antico lastricato romano; vi ero poi
stata di nuovo per condividerne la localizzazione in un periodo
dell’anno dalla
vegetazione più diradata, col beneficio di poter osservare meglio altri
dettagli, ed ogni volta mi pareva di scoprirne una
parte nuova, così come oggi.
Tra i rovi serrati si racchiudevano parti di antiche cisterne dalla volta
sfondata, vecchie manifatture in pietra
ancora disposte a delineare l’idea di una
grandiosa architettura. Ma il rinvenimento più prezioso giaceva nell’individuazione
dell’antica
fontana di acqua perenne, piccola e bellissima, coperta da edere e
muschi, e custodita dal silenzio che dava risalto acustico al timido
scorrere dell’acqua.
Poco distante, a meno di un km, finalmente ammiravamo anche il magnifico Ponte
Nascosto, anche detto in
dialetto locale “Nascusci”,
ponte di epoca romana posto sull'antica via Cecilia: la sua collocazione si
ipotizzava fosse su un’importante crocevia
di antiche strade consolari. Un’impalcatura
malmessa, di circa vent’anni, a stento ne manteneva la struttura millenaria che
pareva
ergersi da sola senza ausili con maggior solennità.
Lungo la strada provinciale che da Preturo saliva ai Piani di
Cascina vi erano i ruderi della cappella di Sant’Antonio. Disposti circa a 768
metri
di quota, salendo, a destra della strada, erano talmente ricoperti dalla
vegetazione che si lasciavano a malapena individuare. Antiche mura
anonime,
ormai talmente riprese dalla natura che non si lasciavano più leggere nei
propri perimetri, tra liane di clematide, rovi e muschi, e la
dolcezza
primaverile di violette selvatiche. Poco più avanti una deviazione sulla destra
dava affaccio sul Fosso della Forcella, e
permetteva di raggiungere ulteriori
edifici dimenticati, ruderi di chissà quali vecchie memorie ormai lontane dall’interesse
dell’uomo, che
nonostante la triste condizione d’incuria avevano comunque un
fascino suggestivo.
Consultando la schedatura analitica delle opere fortificate
abruzzesi curate da Giuseppe Chiarizia (Abruzzo dei Castelli), il Castello di
Cesura risultava nella conformazione di traccia storica, di proprietà incerta e
il cui primo impianto risaliva al XII secolo. Già altre volte - in
autunno e in
inverno - ne avevo descritto le mie impressioni, adesso erano quelle sulla
soglia della primavera, che riscoprivano con nuove
sensazioni lo stesso luogo.
Dal piccolo paese di Casaline un sentiero battuto ci introduceva alla volta
della montagna, dove panorami
familiari si aprivano agli occhi e al cuore con
forte sentimento di appartenenza. I primi fiori svelavano la loro bellezza, soprattutto
l’Hepatica nobilis, l’erba trinità
che con le sue sfumature di viola impreziosiva molti angoli di sottobosco. Dal
Castello di Cesura
scendevamo verso i Prati di Foce, per poi seguire strade
solitarie che mettevano in comunicazione piccoli paesi in parte abitati, che
solo
nella stagione estiva vivevano maggiore affluenza. Quelle vecchie strade
asfaltate e solitarie si incrociavano a tratti con quelle sterrate,
attraversando luoghi remoti alle pendici di Monte Rua.
Il Castello di Rascino sorgeva su un poggetto a ridosso dell’omonima
piana lasciando alla vista soltanto pochi resti del suo antico fortilizio. Un
cartello informativo del luogo, scolorito da sole e
intemperie, ne dava alcune
informazioni. “Il termine Rascino compare
per la prima volta in un documento del 1083 come toponimo di una “posizione di
confine” (fines Rasinum) dei tratturi soggetti all’abbazia
di Farfa, ma il
castello ed il villaggio sono certamente preesistenti e stabili. Intorno alla
metà del XIII secolo quello di Rascino fu uno dei 99 castelli che contribuì al
popolamento di L’Aquila e nel 1315
compare nei suoi statuti. La fondazione dell’Aquila
avviò un processo che per il Castello di Rascino si sarebbe mostrato
irreversibile. Ad accelerare il processo contribuirono i due incendi del 1347
ed il
violento terremoto del 1349. A nulla valse la riduzione della pressione
fiscale del 1352, promulgata per incentivare la ricostruzione: nel 1408, distrutto
dalle guerre, il castello è ormai considerato
abbandonato. Molti studiosi
ritengono che la vera causa dell’abbandono potrebbe essere attribuita all’eccessivo
sfruttamento dei magri seminativi. Trovandosi infatti sopra il limite di
vegetazione
della vite e del castagno, l’agricoltura era infatti esclusivamente
incentrata su cereali e legumi di pieno campo (lenticchie). Tra il 1988 e il
1991 il castello è stato oggetto di una campagna di scavi da parte
della Scuola
di Studi Archeologici dell’Università Inglese di Leicester.” Quel luogo,
popolato secondo i reperti fin dalla preistoria dai rinvenimenti di selci scheggiate,
giaceva ora in silenzio e si lasciava
indagare. La vista del suo lago, dalla particolarissima forma stellare, appagava la vista con la sua bellezza, gli
avvallamenti che scendevano morbidi su di esso infondevano la sensazione di
quiete. Il calore
del sole esaltava quel benessere dell’anima, dove il valore
delle cose si svelava a prescindere dal passaggio inesorabile del tempo.