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Accoglievamo la
proposta di un’amica, quella di coniugare un’uscita in mountain bike con il
ritorno in treno, seguendo parte
del tragitto del fiume Aterno. Andavamo alla
ricerca delle strade isolate e delle carrarecce comprese tra le stazioni di Paganica e
Molina,
che a volte si collegavano tra loro ma che a volte anche si perdevano nel fitto
dei campi incolti. I sentieri alberati dei tigli e dei
pioppi si riempivano della neve dei
pollini, attraversavamo direttrici lunghissime immerse nella bellezza dei campi
di grano, con il
verde intenso delle spighe impreziosito da gemme colorate di
papaveri e fiordalisi. Lungo il corso del fiume l’ombra si animava
di felci,
piante e fiori selvatici, un rigoglioso sottobosco ricco di vita perpetrato dal
canto degli uccelli. Attraversavamo Stiffe,
Campana e la bellezza indiscussa di
Beffi, trovando una vegetazione talmente eccedente da impedirci di proseguire
oltre
il lungofiume, verso la Chiesa di Santa Maria Silvana. Tra ortiche e
ranuncoli ammiravamo la bellezza di maggio, con lo scorrere
dell’acqua che ci
accompagnava in sottofondo. Toccavamo gli ultimi paesi proseguendo su strada
asfaltata, mentre il cielo si
preparava a dissipare i suoi contrasti elettrici
in un violento temporale. La piccola stazione di Molina ci accoglieva deserta
poco
prima della pioggia, l’emozione di riprendere quel treno dopo tanti anni mi
riempiva infinitamente di gioia.

Partivamo da
Onna in direzione di Filetto, alla ricerca dei sentieri partigiani della
Seconda Guerra Mondiale. Seguivamo un
percorso suggerito tra orti e campi
coltivati di grano, ma perdendolo e ritrovandolo più volte a causa di nuove
case e
nuove strade. La gente del posto ci indicava le vie secondarie che un
tempo collegavano i paesi, dandoci così la possibilità di
conoscere un nuovo
percorso per Pescomaggiore. Passavamo vicino alle case di paglia e trovavamo il
ristoro grazie ai fontanili
sia dentro che fuori il paese, come Fonte la
Conserva e Fonte Onega, mentre mano a mano si apriva la vista su Filetto e la
vallata sottostante. I petali dei fiori parevano sgualcirsi al vento caldo di
maggio, si offrivano agli insetti che ne trasportavano il
nettare, offrendo il
meglio della loro breve bellezza. Una strada asfaltata conduceva ai Piani di
Fugno, ammiravamo il versante
liscio di Monte Ruzza puntinato da qualche pino e scoprivamo i seminterrati
rifugi dei pastori che mantenevano ancora viva la
memoria degli anni della monticazione. Al valico di Capo La Forca
una distesa di ranuncoli tingeva l’altopiano di giallo, una
quiete immensa
riempiva il cuore con quella visione pacata, come se i colori della primavera
colmassero anche l’anima con la loro
bellezza. Le cime del Gran Sasso confondevano
tra le nubi gli ultimi accumuli di neve, mentre la restante mole
grandiosa rinnovava immense distese verdeggianti.

L’ultimo treno
della Vecchia Ferrovia Spoleto Norcia partiva alle 19,40 del 31 luglio 1968, da
allora le 19 gallerie che la distinguevano come Gottardo dell’Umbria si immergevano nel
silenzio. Ormai smantellata
da anni e resa pista ciclabile per mountainbike, ne ammiravamo la bellezza di
parte del suo tragitto lungo gli affacci sulla Valnerina, tra viadotti avveniristici
per l’ingegneria del tempo e tratti di linea elicoidali. Il verde rigoglioso
della vegetazione di maggio si accostava al limite di ogni percorrenza, abbandonandoci
soltanto sui ponti
sopraelevati, dove lo sguardo trovava lo slancio ad una
visione più ampia della Valle del Nera. Ci immergevamo nel buio fitto delle
gallerie, a malapena rischiarate dalla luce di un cellulare,
con una dimensione
notturna indotta, umida e fredda, che ci accostava alla terra. I pipistrelli, disturbati
dal nostro passaggio, si animavano poco prima di ogni uscita, mentre il
sole tornava a
scaldarci appena fuori, tra il profumo diffuso di acacie e
ginestre.