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Salivamo il
ripido Vallone di Fua, immergendoci in una piacevole dimensione d’ombra. Quella
forra selvaggia veniva attraversata
da un sentiero che accedeva ai prati
superiori, dove alcuni rifugi in pietra, nella località delle Caparnie,
venivano affidati
stagionalmente ai pastori di Santa Anatolia. Era da poco
iniziata l’estate, e i prati superiori esponevano al meglio le ultime
fioriture
rimaste. Il Lago della Duchessa si arricchiva della bellezza degli
armenti: mucche e cavalli vi trovavano il ristoro bivaccando sulle
rive,
lasciandosi riflettere assieme al cielo in quello specchio d’acqua. Il rumore dei
loro campanacci risuonava
nell'aria trovando una piacevole cassa di
risonanza in quella depressione. Alcuni ranuncoli in prossimità delle rive erano
stati
sommersi dall’abbondanza delle ultime precipitazioni, la loro bellezza
pareva bloccarsi nel tempo, mentre poco distanti
scorgevamo un gran numero di
tritoni crestati, indisturbati dalla nostra presenza. Procedevamo in direzione
del Male Passo, alla
ricerca di uno dei più bei punti di vista sul Monte Velino,
e mano a mano che avanzavamo vedevamo aprirsi sotto di noi anche la
maestosa grandiosità
del Vallone di Teve. Quell’enorme canale boscoso pareva sprofondare al cospetto
delle montagne che ne
tenevano il registro; sempre con tantissimo piacere distinguevo ancora al suo interno
il piccolo bosco di betulle che tanto avevo cercato.
Il Valico della
Chiesola molti anni fa accoglieva una piccola chiesa dedicata a San Felice, la Ecclesia Sancti Felicis de Camardosa, di
cui alcuni documenti ne testimoniavano la presenza fin già nel XII
secolo. Di quella
piccola costruzione, divenuta ricovero pastorale prima di scomparire del tutto,
ne rimaneva soltanto la denominazione presa nei secoli più recenti: la Chiesola
di Lucoli,
da cui appunto il nome del valico. Diversi insediamenti in passato si
erano registrati in quelle zone, e a darcene testimonianza erano i documenti
sulla storia abruzzese scritti da Anton Ludovico
Antinori: un villaggio già inabitato
nel XVII secolo rendeva le sue spoglie alla zona del Cerasolo, ma ormai non c’era
più nulla da vedere di quelle pietre vissute, e persino la più recondita
memoria
tendeva a dissolversi col passare degli anni. Molte carrarecce si incrociavano
tra loro tessendo l’antica viabilità che collegava il territorio aquilano col quello
del Cicolano, noi
seguivamo parte di quei sentieri prima di seguire il filo di
cresta di Monte Cava. I pascoli stanziavano nel bosco al riparo dal sole e dall’aria
immobile, mentre noi ammiravamo tutti i profili delle
montagne circostanti,
offuscati leggermente dall’umidità che mano a mano generava in cielo le torri
dei cumulonembi.

Da Collebrincioni
saliva una ripida strada in direzione di Monte Castellano, la memoria correva
indietro nel tempo al 23 settembre del 1943. Queste zone avevano vissuto l’esperienza
di
undici ragazzi, tutti amici intorno a vent’anni, rimasti fedeli fino alla morte.
Umberto, Stefano, Francesco, Fernando, Berardino, Pio, Carmine, Sante, Giorgio,
Anteo e Bruno erano undici amici
che attendevano. Tra loro, Bruno aspettava suo
padre, il tenente colonnello Gaetano d’Inzillo, che aveva promesso a suo figlio
e ai suoi amici di portarli via da Collebricioni. C’era la guerra e loro
partecipavano
ad un piano di resistenza ben preciso, che li vedeva coinvolti nel recupero di
armi da condurre nel teramano. Passava la notte e loro sognavano di realizzare
il diritto alla
propria libertà, sognavano il Bosco Martese, e ponevano fiducia
agli uomini con più esperienza, quelli che sapevano sparare, che non li
avrebbero mai abbandonati alla volontà degli invasori. Ma la
notte passava e
non ci fu fede all’appuntamento. L’indomani la voce tedesca risuonava tra i
vicoli di Collebrincioni, i ragazzi fuggivano in direzione di Monte Castellano
sotto il raggio
scoperto di una mitragliatrice, alcuni risposero al fuoco, ma
Umberto venne ferito. I suoi amici nonostante il terrore della loro condizione non
lo abbandonarono, lasciarono cadere a terra le
armi che nemmeno sapevano usare:
uno venne graziato, gli altri nove divennero i Martiri Aquilani. L’anticima di monte Castellano teneva la memoria
di quel giorno con una croce, dove
un piccolo uccello vi si era posato sopra. La
memoria di quel giorno si perdeva nella bellezza delle fioriture e nei colori rinnovati
delle montagne, una disperazione lontana ma di cui la terra manteneva ancora l’umore.
