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L’inghiottitoio di Palarzano era ormai ostruito da molti
anni per mano dell’uomo, chissà quale sistema carsico si animava sotto quel
tappo di
cemento, quali meraviglie intatte da indagare e sconosciute, mai
rilevate e misteriose. La leggenda portava il detto de “l’acqua cascinese
dolce era e amara misi fece” parole della moglie
di un pastore di Antrodoco, che abituata a raccogliere a valle le pecore rubate
dal
marito e buttate nello gnottetùru
un giorno raccolse i resti del marito stesso, morto ammazzato come condanna per
quei furti. Tra la
leggenda e la realtà chissà quali percorsi c’erano nel
sottosuolo, chissà se davvero compivano un tragitto sotterraneo che da Cascina
giungeva
fino ad Antrodoco, a noi rimaneva solo la vista superficiale di
altipiani rasserenanti, definiti dalla geometria delle coltivazioni, dai
recinti e dai
pochi casolari sparsi. Sulla cresta della Pacima vi erano i
ruderi del Castello di Cascina, risalenti al XII secolo. Quell’antico castello
era nato
anticamente come un insediamento rurale poi incastellato, e partecipò
alla fondazione della città dell’Aquila; il suo abbandono fu abbastanza
precoce, tanto che all’inizio del XIV secolo se ne attestava già una natura
diruta. Rimanevano spesse mura di pietra con varchi di finestre,
cumuli di sassi
rivestiti di muschi, ed arbusti solitari a dimorarvi. La vista spaziava sulla
bellezza di entrambi gli altipiani, dove mucche e
cavalli si percepivano come
punti di presenze lontane.

L’antica chiesa di San Biagio aveva preso il nome di Madonna
del Cavone, probabilmente in allusione alle grandi cave di sabbia adiacenti,
tra le frazioni di Torre e di Termine di Cagnano Amiterno, a cavallo di una
strada sterrata che le metteva in congiunzione. Della piccola
chiesa, ormai
diruta, ne rimanevano le mura dissestate, sulla porta d’ingresso la data “1589”
fermava il tempo alla sua edificazione,
lontana, così come sbiaditi erano gli
affreschi e gli stucchi dell’altare. Dal XVI secolo ad oggi molte vite avevano
varcato quella soglia,
l’interno ormai era dimorato solo da rovi ed arbusti,
gli unici che in quell’area sacra avevano continuato a trovare protezione.
"La chiesa di Madonna
del Cavone, precedentemente conosciuta come Chiesa di San Biagio, risale al XVI
secolo come testimoniato
dall’iscrizione sulla porta centrale recante la data “1589”.
L’edificio, di modeste dimensioni e a pianta rettangolare, presenta l’ingresso
principale sul lato posto a Nord Est. Al suo interno è ancora ben visibile l’altare
con gli affreschi del XVI secolo. Secondo una leggenda
la Chiesa custodisce un
antico tesoro; si racconta che qualche decennio fa una nota famiglia cagnanese
avesse scavato sotto il
pavimento della stessa alla ricerca di tale tesoro". (Notizie
tratte da un cartello informativo del luogo).
Alle estreme
pendici della Costa Grande si apriva la Fossa di Spedino, una magnifica dolina
da crollo che vista dall’alto infondeva suggestione
a causa della sua apparenza
inaccessibile. Le ripide pareti scendevano verticali per decine e decine di
metri di roccia marcia, quasi repulsive
alla vista e alla presenza degli uomini, eppure
lì dentro vi dimorò un eremita tra il XII e il XIII secolo, tale Beato Bonanno da Roio.
L’unico
accesso percorreva un ripido sentiero fino al culmine sommitale di un
ghiaione, da lì si accedeva in un cratere d’ombra dai calcari ossidati e
coperti di muschi, con pochi alberi sul fondo e molti detriti, era una
concavità magnifica, grande, molto suggestiva. L’eremo del Beato
Bonanno era
una piccola grotta che dal fondo della dolina risaliva di poco e si collocava
ad Ovest, composta di tre ambienti molto modesti e
su livelli differenti. Era
sorprendente la scelta degli eremiti, andavano sempre alla ricerca dei luoghi
più inaccessibili e repulsivi, dove il
confronto dell’uomo con la Natura era
assolutamente indiscutibile. C’era sicuramente una probabile ricerca del Sublime
[dal lat. sublimis
(con la variante
sublimus), comp. di sub «sotto» e limen «soglia»: propr. «che giunge fin sotto
la soglia più alta»], un confronto diretto
che metteva al conto tutti i
possibili limiti umani.
La Piana di Amplero conteneva un bacino di nebbia che gradualmente
scopriva la sua parte bassa, mostrando il pascolo lento dei cavalli e il
disegno articolato di un rivolo in fuga verso l’inghiottitoio. A monte di un
piccolo colle il bosco custodiva i resti della “Giostra”, una zona di
culto racchiusa
da una cinta fortificata, dove una cisterna, un edificio rettangolare, un
santuario ed un deposito votivo erano il cuore di
quell’area sacra al popolo
dei Marsi. Negli anni ’70 e ’80 una campagna di scavi portò alla luce molti
reperti e oggetti votivi, interrati non solo
sul colle ma anche nel resto del circondario:
vi erano moltissime tombe, numerose lapidi e stele, un bellissimo letto d’osso
e le famose
“gambe del diavolo”, elementi tuttora custoditi al Museo
Archeologico Nazionale di Chieti. Benché non vi fossero più quei reperti, ma
solo
basamenti di mura anonime e sassi dismessi, quell’area continuava a mantenere il suo
fascino sacrale, forse suggerito dalla suggestione del vagare di anime dell'antico popolo dei guerrieri marsi.