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Da Fonteavignone a Stiffe un antico sentiero attraversava la
Valle Remuzza, dove ormai da anni non si praticava più il bosco ceduo.
Moltissimi
muri a secco ne stabilivano i terrazzamenti, delimitando piani e sentieri,
impreziositi da enormi maceroni, probabili tholos, di
epoche remote. La neve
dava un senso di ordine al fitto degli arbusti, dai piani immacolati sbucavano i
rami dei prugnoli in riposo e il rosso
vivido delle bacche di rosa canina. Fuori
sentiero la neve mostrava anche il recente ricordo dei passaggi di digitigradi
e ungulati, quelle
zone così poco frequentate avevano il grande fascino della
natura incontaminata.
[…] Il territorio
stiffano è diviso in due dalla vàllë rëmùzza, lungo la quale sale la mulattiera
che conduce a Fonteavignone. Il toponimo è
un composto di valle e di un secondo
termine che può essere interpretato come derivato di mozzà 'mozzare, tagliare',
con prefisso
intensivo re-. Il senso della designazione è, dunque, 'valle
tagliata e ritagliata', con riferimento al ceduo, cioè al taglio periodico
degli
alberi del bosco di Faggeto. […] Citazione tratta da http://asciatopo.xoom.it/ sito di Antonio Sciarretta, dove sono presenti moltissime altre informazioni sul territorio.
La Chiesetta di Santa Eugenia conservava integre le sue
antiche mura, con l’abside e la facciata d’ingresso. Al centro un magnifico
arco divideva l’ambiente in due parti, ma con la vana funzione di sostenere un
tetto inesistente. Sorgeva solitaria sul valico di una strada
di montagna che
dall’altopiano di Navelli saliva sui modesti rilievi di Monte Offermo,
divisorio con la Valle Subequana. Alcuni affreschi
erano ancora visibili nell’abside,
nonostante il tempo e l’incuria, e con piccoli resti ne impreziosivano la parte
più sacra con colori accesi. La
bellezza di quei posti tutt’intorno portava
ancora il segno degli incendi, nonostante la neve che ne addolciva le
sembianze. La vegetazione
incolta dei rovi e delle roverelle contrastava con l’ordine
dei campi arati, e sul limite di uno di questi sorgevano i ruderi dell’antica
Chiesa
di San Giovanni. Articolata su due livelli, anch’essa senza tetto,
manteneva in piedi fragilmente le sue mura, gli alberi vi avevano da
anni preso
dimora all’interno, e tutto era destinato al più totale abbandono. Una scritta
a matita di quarant’anni replicava sull’intonaco
dell’ingresso “quando che si entra qui si deve levare il
berretto e sennò ci sono le punizioni”, ribadendo il valore di quell’area
sacra.
Su entrambe le chiese di Sant’Eugenia e di San Giovanni, limitrofe a
Navelli, non sono riuscita a trovare informazioni storiche, prego
chiunque ne
abbia gentilmente di fornirne.
Fuori l’aria d’inverno, dentro il tepore della grotta. Le pareti del pozzo erano piene di ragni e dolicopoda, silenziosi ed immobili, ancora più fermi sotto il fascio delle nostre luci.
Continuavamo a cercare l’ingresso con
l’impegno e la tenacia di chi crede nei sogni, chissà se mai riusciremo ad
accedere nei meandri di un luogo inviolato. All’uscita, sulla soglia delle
ultime luci del giorno, una leggera nevicata aveva comunque il bellissimo sapore
di un sogno.