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I pendii sopra Cesacastina salivano morbidi, attraversando i bianchi tornanti di neve e brecciolino. La neve maculava la terra a chiazze, componendo disegni insoliti che salutavano l’inverno
proponendosi alla primavera. I tiepidi raggi del sole battevano sul falasco secco che, scoperto dalla neve, donava la visione dei primi crochi. Quei fiori, così carichi di un lilla stemperato e
dolcissimo, erano ambasciatori del caldo e della stagione degli amori. Ogni cosa si rinverdiva e rinnovava, l’inverno ormai era segregato in alto, e bisognava salire in quota per andarlo ancora a
prendere. Usciti dal bosco gli ampissimi pendii salivano morbidi, attraversando pratoni innevati e morbide pendenze regolari. La nebbia sulla cima si componeva di volubili trasparenze, che si
accentuavano e diminuivano come un capriccio della montagna. Intorno tutto girava verso sconfinati punti di fuga, in un panorama immenso e meraviglioso che correva lontano alla
ricerca di altre montagne. I Monti della Laga sono di una bellezza sconvolgente. La neve copriva ogni cosa, cancellando addirittura anche le tracce umane della croce di vetta e dell’ometto
sommitale. Da lassù vivevo la vertigine di tutto quello che avevo di fronte, in un lungo salto emotivo che si imponeva immenso davanti ai miei occhi. Assieme ai miei pensieri tutto scivolava.
La Majella rinnovava la bellezza dei suoi pendii, con lo sguardo che le correva lungo i profili verticali. Le rave innevate la cingevano con tanto amore, nel bianco candore dei suoi canali. La osservavo da lontano, nei momenti dell’avvicinamento.
Volevamo salire su Monte Rapina, alla ricerca di uno dei pendii scialpinistici più semplici di tutta la Majella. La consistenza della neve veniva incontro alla mia disposizione, finalmente ne conoscevo una nuova tipologia, la più bella di tutte, quella che
dopo consistenze crostose, ghiacciate, ventate e pesanti, si mostrava nella sua veste più bella: finalmente conoscevo il firn. Firn (dal tedesco Firn) è il nome che viene dato a un particolare tipo di neve. È parzialmente neve compattata, un tipo di neve
che è stata lasciata dalle passate stagioni ed è stata ricristallizzata in una struttura più densa. Si tratta di ghiaccio che si trova in una fase intermedia tra la neve granulare ed il ghiaccio glaciale. Il Firn ha l'aspetto di zucchero bagnato, con
una durezza che lo rende estremamente resistente. Esso generalmente ha una densità superiore a 550 kg / m³ e si trova spesso sotto le nevi che si accumulano a capo di un ghiacciaio. La sua origine è data dalla compressione dei fiocchi di neve sotto
il peso del sovrastante manto nevoso. I singoli cristalli in prossimità del punto di fusione sono semiliquidi e lisci, consentendo loro di scorrere lungo altri piani di cristalli e riempire gli spazi tra loro, aumentando la densità del ghiaccio.
Quando i cristalli si legano insieme, spremono l'aria tra di essi e vanno verso la superficie in forma di bollicine. Nei mesi estivi, la metamorfosi dei cristalli può verificarsi più rapidamente a causa della percolazione di acqua tra di essi. Entro la fine dell'estate il
risultato è chiamato Firn. L'altitudine minima a cui il Firn si accumula in montagna è chiamata il "limite di Firn", linea del Firn o snowline (cioè "linea delle nevi perenni"). (Articolo tratto da Wikipedia, fonte). La bellezza di questo tipo di neve stava nel
suo sostegno e nella sua facilità, persino io che avevo iniziato a sciare da poco riuscivo a rilassarmi senza problemi, finalmente la neve mi rispondeva, a differenza delle superfici ventate e ghiacciate. Finalmente riuscivo a trovare dall’inizio alla fine una consistenza meravigliosa ed omogenea. 
La bauxite dei giacimenti abruzzesi viene detta “da terra rossa”, in quanto deriva dall’alterazione di rocce calcaree più o meno argillose. Il fenomeno che è alla base del carsismo è quello della solubilizzazione del carbonato di calcio (CaCO₃) ad opera
dell’acqua contenente anidride carbonica. Il detrito residuale insolubile se è costituito in prevalenza da idrossidi di alluminio prende il nome di bauxite. L’interesse geomorfologico per questi giacimenti nasce dalla considerazione che la formazione del
deposito può essere avvenuta solo in una fase in cui i blocchi di roccia che li contengono dovevano risultare emersi dall’ambiente marino allora presente in questa zona, in modo che le acque meteoriche potessero operare un’erosione di tipo
carsico. L’emersione si presume sia avvenuta nel Creataceo medio, quindi il primo carsismo che ha interessato l’area si può far risalire ad alcune decine di milioni di anni fa (Cenomaniano). Gli affioramenti più consistenti di bauxite sono presenti nella
zona della Serralunga di Campo Felice a Monte Orsello e nella Valle di Serralunga a Nord Est di Casamaina. (Tratto da I sentieri montani della Provincia dell’Aquila). Le miniere di bauxite di Campo Felice attualmente sono dismesse da molti anni, vivono
il loro abbandono nel contrasto dei rossi riaffiorati dalla terra. Alcune marcano più di altre la presenza dell’uomo, identificandola per lo più in innaturali tagli di roccia, ma nonostante questo sono tutte silenziose e antiche, lontanissime da
noi anche solo nella cognizione. Perché oggi le miniere sono di altro tipo: non esiste più (qui) la figura del minatore che senza l’ausilio di macchine estrae la materia dalla terra. Quando mi trovo nei pressi di una miniera penso a come poteva essere la vita
in quegli anni, di come poteva scandirsi nei ritmi naturali del giorno e di come – nel bene e nel male – quante meno cose potevano esserci rispetto ad oggi. Venti, trenta, quarant’anni sono tanti se si pensa a come sia vertiginoso lo sviluppo
tecnologico. La terra rossa scoperta a forza prova a rinterrarsi sfumandosi nei corsi d’acqua, la Natura si sa che si riprende tutto. Quello che ne rimane è una grande nostalgia, un sentimento di passaggio sfumato anch’esso alla ricerca dell’oblio. Come sono
tristi i luoghi del non più, quelli dei ricordi e dei pensieri, ormai canti lontanissimi che lasciano percepire solo il loro eco. Possono anche non appartenere, ma sono sempre universali.
Le cime delle montagne oscuravano le loro teste, in molte zone c’erano ghiaccio, nebbia e schiaffi di tramontana, mentre in altre solo pioggia e zolle scoperte. Desideravo molto visitare l’eremo di Santa Colomba, una minuscola chiesetta posta a ridosso del versante teramano del Gran Sasso, all’incirca più di mille metri sotto le Torri di Casanova. Il Gran Sasso visto da lì celava la sua
imponenza coprendosi di nebbia e di mistero, era bellissimo percepirlo in questo modo, perché diveniva ancor più suggestivo, quasi a voler marcare la presenza della Santa. Il percorso per l’eremo saliva serpeggiando nel bosco, e mano mano si copriva di una neve intatta che aumentava in relazione alla nostra progressione: giunti all’eremo circa un metro di neve ridisegnava
il livello del suolo. Montagna di santi, briganti, diavoli e tesori, queste balze rocciose e selvagge sono state testimoni di storie appassionanti che la cultura popolare ci ha tramandato. E proprio su Santa Colomba la fantasia popolare ha costruito una delle leggende più belle. Nata da famiglia nobile abitava insieme al fratello Berardo nel Castello di Pagliara. Ma, come spesso
avveniva in quei secoli, sia lei che il fratello rinunciarono ai fasti e agli agi di quella vita e, abbandonando quel comodo riparo cercarono “un sito dove tacere perfettamente il rumore del mondo”. Berardo si spostò verso la Valle del Mavone e, in merito alla sua santità divenne poi Vescovo e Patrono di Teramo. Colomba invece preferì l’esperienza della montagna e si rifugiò
nei boschi che scendono dal Prena. Come nelle migliori agiografie ritroviamo la santa compiere svariati miracoli, dall’incontro con lupi ed altre fiere, all’improvvisa apparizione di frutta su alberi fuori stagione. E proprio il fiorire delle ciliegie permette a Colomba di sfamare il fratello che, giunto lassù nel mese di gennaio, voleva avere da lei il consiglio se accettare
o meno l’investitura di Vescovo. purtroppo proprio quella notte la santa spirò e toccò al fratello seppellire il corpo ormai scheletrito dagli affanni e dalle rinunce. Il giorno dopo tutto il paese salì in quel posto e poté vedere il ciliegio carico di frutti. Da allora il culto della Santa continua, ma nel tempo questo è sopravvissuto solo a Pretara, dove ogni anno, in occasione della
festa di S. Colomba, viene effettuato un pellegrinaggio fino alla chiesetta. Questa fu fatta erigere da Berardo nel XII secolo e restaurata nei secoli seguenti. Inoltre lungo il percorso si trova un masso dove è rimasta l’impronta della Santa ed un altro con impresso il suo pettine. (Tratto dal libro Gran Sasso, le più belle escursioni – di Alberico Alesi, Maurizio Calibani eAntonio Palermi). Nei pressi della piccola chiesa un cartello dell’Archeoclub di Pescara forniva alcune informazioni a riguardo che riporto fedelmente: Possiamo sicuramente dire che il culto di Santa Colomba nella zona ha antiche origini. Per quanto riferisce il Petrilli, il vescovo di Penne S. Anastasio, morto nel 1219, consacrò la chiesa di S. Colomba che era stata eretta dal fratello
S. Berardo. È comunque certa l’esistenza, nell’anno 1328, di una chiesa dedicata alla Santa, che pagava le decime nella misura di “carlenum unum et gr. duo”. Nel 1647, come leggiamo sulla lapide murata di lato all’altare della chiesetta, il sacerdote Tattoni di Isola, restaurò il luogo di culto nel periodo in cui esso era affidato ad un certo eremita fra’ Giovanni. Nella prima metà
dell’Ottocento vi giunse fra’ Nicola, il quale, risiedendovi saltuariamente, restaurò la chiesa e vi aggiunse una piccola stanza per l’eremita. Ogni 1° di settembre, dalla frazione Pretara di Isola del Gran Sasso e da alcuni paesi vicini, numerosi pellegrini giungono alla chiesetta ed all’interno non è raro vedere i fedeli accostarsi all’altare e introdurre le braccia o la
testa nella piccola buca laterale. È la “fenestrella confessionis”. L’introduzione, il passaggio della parte dolorante del corpo nelle sepolture o nei reliquiari dei santi rappresenta una particolare forma di litoterapia. (Realizzazione Archeoclub – Pescara – Majambiente a.r.l.). Sulla via del ritorno, poco prima di giungere a Pretara, un altro eremo aveva catturato la nostra curiosità, era
quello di Frà Nicola, conosciuto anche come Eremo di Frattagrande. La facile accessibilità lo vedeva collocarsi proprio sul bordo della strada asfaltata. Anche qui un cartello dell’Archeoclub di Pescara ci forniva alcune informazioni: Nonostante Fra’ Nicola fosse ormai avanti con gli anni, intraprese la costruzione di questa chiesetta con romitorio sotto
la grotta di Frattagrande, a poca distanza dalle acque del torrente Ruzzo. Tutto ciò avveniva qualche anno prima del 1856: in un suo passaporto risulta, infatti, che in tale data egli era già dimorante a Pretara. Il comune nel 1873 concesse a Fra’ Nicola un’area circostante il romitorio per la sua opera meritoria di abbellimento dei dintorni della chiesetta e per i restauri da lui
effettuati a S. Cassiano. Negli ultimi anni della sua operosa esistenza, non potendo più girare per la questua, gli fu offerta ospitalità dai Padri Passionisti, ma egli rifiutò preferendo continuare la sua vita di stenti e solitudine. Morì il 23 febbraio del 1886. Il municipio di Isola si occupò delle esequie incaricando il prevosto Nicola Iezzoni di compiere le epigrafi che
riassumessero la sua vita spirituale. Fu sepolto sotto il piccolo organo che aveva costruito e nella cassa fu posta, in un tubo di stagno, una pergamena nella quale erano ricordati i fatti più salienti della sua vita. Il nostro eremita anche in vita doveva godere di una certa notorietà a giudicare dalle numerose visite che riceveva nel suo eremo e spesso da parte di personaggi
illustri quali Michetti e Barbella. Anche il Romani, pochi mesi prima che Fra’ Nicola morisse, andò a fargli visita a Frattagrande e descrisse in seguito, in maniera particolareggiata, l’eremita e il suo eremo. (Realizzazione Archeoclub – Pescara – Majambiente a.r.l.).
I telegiornali e i media ci parlavano della Luna gigante, che finalmente dopo circa vent’anni sarebbe sorta di nuovo sulle nostre teste, addirittura con la straordinaria coincidenza di essere anche piena. Non potevamo non andare a vederla stanotte, era
troppo importante questo appuntamento, che come un punto fermo si fissava sulle nostre vite. Ho sempre pensato a come le storie di tantissime vite, per quanto possano essere diverse e lontanissime tra loro, per un attimo si trovino tutte a condividere
lo stesso momento e la stessa emozione, sotto il passaggio di straordinari eventi naturali. Non importava se fosse o no il perigeo più marcato degli ultimi vent’anni, quello che contava era il suo pretesto, la sua bellezza, la sua pienezza incontrastata in
grado di marcare bene le nostre ombre sulla terra – o meglio – sulla neve, perché non poteva esserci nulla di più bello che andare a sciare sotto il suo bagliore. Le nuvole si frapponevano alla sua bellezza, quasi scongiurando le nostre intenzioni, ma
volevamo comunque provare a cercarla, in un tentativo fortunato che in qualsiasi modo ci avrebbe reso felici. In fondo non importava se riuscivamo o no effettivamente a vederla, perché comunque noi eravamo lì per lei, e sapevamo bene che
anche lei era lì per noi: nessuna nuvola poteva frapporsi di fronte a questa consapevolezza, perché in ogni modo l’avremo vista con il cuore. Il Cielo si era aperto sul filo di questi pensieri mostrandoci la Luna, sorprendendoci come se avesse
effettivamente ascoltato i nostri desideri. E anche se era tutto frutto di una coincidenza fortunata, a me piaceva interpretarla come la risposta ad un sogno.