skip to main |
skip to sidebar
Ci inoltravamo in un fittissimo bosco di faggi, sotto i balzi
rocciosi dell’Anatella del Sirente. La suggestione dell’ambiente, reso
accogliente e intimo dalla luce calda filtrata dai colori dell’autunno, ci
donava la quiete. Seguivamo un comodo sentiero inoltrato
nel silenzio, tra
patriarchi secolari, antichi alberi che si innalzavano come monumenti, templi
vegetali che accoglievano tra le loro
chiome i nidi, estendevano i loro rami al
cielo e si ramificavano profondamente nella terra. Al loro cospetto la visione
dell’ordine
della natura assumeva la nobile semplicità dell’equilibrio, tra
muschi verdi, tappeti di foglie brunite e giochi di ombre, pentagrammi
su cui
le note di sottofondo davano voce alla melodia del verbo degli uccelli. Scorgevamo tra gli alberi il cratere del
Sirente, oltre la
visuale del bosco la grande piana carsica sottostante si
apriva come un respiro, accogliente e distesa dove i pascoli giacevano pacati.
Sulla
via del ritorno incontravamo la Fonte dell’Anatella, un abbeveratoio dalla
struttura essenziale e importante che sorgeva
isolata sull’omonima valle, altro
importante punto di riferimento per il transito dei pascoli.
Nell’Alta Sabina, Tra Orvinio e Pozzaglia, una rete di
comode strade attraversava boschi e vallate, ne percorrevamo una in
direzione
della suggestiva Santa Maria del Piano, un’antica abbazia benedettina del IX
secolo che manteneva ancora in piedi
i tratti distintivi della sua bellezza strutturale.
La scorgevamo imponente tra gli alberi, così bene integrata nel paesaggio, che
lasciava
dedurre senza dubbio l’importanza che aveva rivestito in passato. La sua antica
origine sembrerebbe ad opera di
Carlo Magno a seguito di una vittoria sui
Saraceni; conobbe un periodo di rilevanza e operosità, che diminuì mano mano nel
corso
del tempo, fino a quando ob aevi
gravitatem et redituum diminutionem venne abbandonata sul finire del
Medioevo.
Trovavamo incastonati nella sua struttura i materiali di risulta
dalle origini ancor più antiche, grandi lettere incise ancora
perfette a
dispetto dello scorrere del tempo. Seguivamo i sentieri fino alla sponda del
Fiume Rio alla ricerca della mola, tra radure
animate dai pascoli, boschi
autunnali e il calore di una mite giornata di ottobre, con la torre campanaria
dell’Abbazia che svettava tra gli
alberi come un punto di riferimento sulla via
di ritorno per Orvinio. La gentilezza degli abitanti del posto, così legati a L’Aquila,
ci donava
un momento di condivisione sulla conoscenza del territorio, ma anche
di riflessione sulla frequentazione massiva che nei mesi
estivi la Cascata
della Mola del Castello era costretta a subire. Il dono di condivisione di
Domenico ci lasciava scoprire un luogo che
altrimenti non avremmo mai trovato,
una mola ancor più antica immersa nella bellezza di una natura incontaminata.
Nel 2004 erano state condotte delle interessanti ricerche
sulle pitture rupestri del riparo sotto roccia di Grotti, lungo la Valle del
Fiume
Salto, dall’archeologo Tommaso Mattioli in collaborazione con la Cattedra
di Protostoria europea dell’Università degli Studi di
Perugia. Tali studi
ponevano l’attenzione su queste straordinarie testimonianze: ben sedici pitture
di colore nero, probabilmente
incise con un pezzo di legno in parte
carbonizzato, definivano con uno stile schematico figure antropomorfe,
geometriche e filiformi
di piccole dimensioni, risalenti all’età
pre-protostorica (qui l’articolo completo). La localizzazione del sito, nonostante
le indicazioni,
non era semplice, e questo fortunatamente ne garantiva la
salvaguardia. Anche il riuscire ad individuarle da vicino non era immediato, aspetto
che faceva accrescere ulteriormente l’entusiasmo per la loro lettura. Da quel
riparo roccioso, esposto in maniera così privilegiata
e assolata, compivamo un
salto temporale che ci riportava in dietro nel tempo all’Eneolitico e all’Età
del Ferro, l’emozione per
questa consapevolezza era unica. Riprendevamo il
sentiero per il Santuario della Madonna dei Balzi ammirando anche
altre interessantissime
testimonianze. Un antico insediamento del XIII secolo, definito Castello delle
Grotte – per i locali noto con il
termine Grotte sfasciate – si incastonava nei
vuoti rocciosi dei balzi della montagna, conformandosi in maniera davvero
singolare,
con i vari riadattamenti avvenuti nel corso dei secoli. Il valore
della pietra lavorata addossata alla roccia, la consapevolezza della
storia e
la bellezza suggestiva dell’ambiente rendevano quel percorso segnato sul filo
delle falesie davvero unico.
Sopra i Colli di Teora, nascosti nel fitto della
vegetazione, c’erano i ruderi della Rocchetta. L’importante insediamento era
stato completamente dimenticato e vi erano soltanto pochissime notizie a
riguardo. “[…] Sopra al paese di Colli, a
q. 915,
vi sono imponenti ruderi che i locali chiamano Madonna della Rocchetta
(sull’I.G.M. “la Rocchetta”). Si tratta di una
chiesa sovrappostasi forse ad
una “rocca” preesistente di cui nulla si sa. […]” tratto dalle note illustrative de I Sentieri
montani della Provincia dell’Aquila n.4 i Gruppi M. Nuria M. Calvo M. Giano
Monti dell’Alto Aterno di Carlo Tobia, 1996,
pag. 59 (nota 52). Antiche strade
ricoperte dalla vegetazione, tra tracce di muretti a secco, rovi e rose canine,
nella
bellezza di una natura selvaggia e incontaminata, conducevano a questo rilevante
edificio, ancora in piedi nonostante la
scarnitura del tempo e la mano dell’uomo
che l’aveva spogliato di ogni decoro. Coordinate della Rocchetta: 42°26'9.25"N 13°15'26.75"E