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La montagna sopra Vigliano rendeva omaggio al culto di San Michele Arcangelo, che con la presenza di grotte gli aveva dato il suo nome. Vi
erano la Grotta dell’Oro e il Grottone a suscitare la suggestione di antiche credenze, abbandonate dai fedeli e seppellite dai rovi: l’una
lasciava alcuni residui di affresco ai piedi di un altare ricavato nella roccia, l’altra il basamento di un antico riparo, probabile anch’esso
luogo di culto. Scarsissime informazioni lasciavano correre la fantasia, che interpretava le lunghe fila di pietra a secco, sul crinale
della montagna, come residui di antichi insediamenti. Orum, sul margine di un pendio scosceso, spiegava l’illusorio appellativo dorato,
seguivano il fascino del bosco in riposo e l’ampia prospettiva panoramica a conferire ricchezza a quelle località.
I pendii di Monte Calvo rendevano omaggio alla quiete, alla
visione lontana delle montagne, ad un inverno che ci ingannava con le sue
temperature miti. L’aria nitida annullava le foschie delle distanze, ci portava
la presenza integra del Gran Sasso e della Majella, del
Massiccio del
Terminillo e dei Monti Reatini, della Laga e dei Sibillini, del gruppo del
Nuria e del Cicolano, di Monte Giano, e del
triangolo innevato del Velino. La bellezza
stava su quei colli modesti rigati dalle mulattiere, lambiti da una luce invernale
che così bassa ne
estendeva i profili delle ombre come presenze solenni. Valle
Lunga si apriva solitaria con il suo fascino severo, la sua origine glaciale si
apriva nel cuore del sistema di Monte Calvo, e fino a quando era possibile la
percorrevamo al limite del sole. Dentro Valle Bona i
boschi ci ingannavano con
visioni autunnali, scendevamo la via verso Rocca di Corno, lungo mulattiere
bordate di rosa canina e acheni di clematide.
La Grotta degli Urli apriva il suo ingresso nelle prossimità
degli impianti sciistici di Campocatino, dove la mancanza di neve rendeva
desolata la zona. A ridosso dei Monti Simbruini ed Ernici ammiravamo la
bellezza di panorami sconfinati, esaltati dalla
luminosità di un cielo azzurro senza
umidità. La grotta si apriva non segnalata tra i ginepri del Fosso dell’Obaco, raggiungibile
attraverso
un anonimo sentiero. Una breve successione di pozzi e strettoie conduceva
alla magnifica Galleria Andrea Doria, dove non vi erano
concrezioni a
sottolineare la bellezza del sottosuolo, ma la consapevolezza di un ambiente ampio,
inimmaginabile all’ingresso.
Scendevamo comodamente camminando e pareva di
inoltrarsi nella sacralità di un tempio sotterraneo. Dopo il Salone del
Trentennale la
Strettoia Santabarbara portava nel nome quell’appellativo
divino, dove le paure si accostavano ai limiti e il desiderio spingeva a
cercare
ulteriori altrove. Tornavamo
indietro senza percorrerla, trovando all’uscita la fase preliminare della
notte, i toni rossi del crepuscolo
bruciavano l’orizzonte prima di proiettarsi
nell’infinito, si accendevano le prime luci e le prime stelle, era straordinario
perdersi in quell’eterna infinità.