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La Valle Majelama ci accoglieva silenziosa e solitaria, con le
sue pareti laterali austere, seguivamo il percorso nel suo letto d’ombra e di
arbusti, per poi innalzarci di quota mano mano verso una natura rada e severa,
senza ripari, alla sola presenza dei massi erratici dispersi nelle
antiche
morene. Giunti al valico del Colle del Bicchero piegavamo a destra sul filo di
cresta di Punta Trento e Punta Trieste, circondati dalla
bellezza dei panorami
e accompagnati dalla dolcezza del sole di ottobre, più caldo del solito, magnifico
e rasserenante. Seguendo il filo di Capo
Pezza e di Costa Stellata il nostro
sguardo ammirava ora l’ancor più solitaria Valle della Genzana, antico
ghiacciaio pensile, ora custode di
un piccolo stazzo dove il tempo pareva
fermarsi. Scendevamo la ripida dorsale intercettando il sentiero tra gli
arbusti e alcune balze rocciose
prima di riprendere il sentiero le cui ombre si
flettevano gradualmente verso il riposo della sera.
A Sud dell’abitato di Scoppito, tra strade secondarie, erano
ancora visibili gli antichi selciati romani della Via Cecilia, che
affioravano alla luce con riserbo nonostante la forza del loro passato. Tutto intorno
il folto della vegetazione faceva da cornice alla
consapevolezza di così tanta
storia, chissà quanti viandanti avevano percorso quel tracciato, quante vite,
memorie, storie di uomini sul
transito di quelle antiche pietre, che erano
sempre lì nonostante i rinnovi perenni delle stagioni. Andavo alla ricerca dei Palazzi, dove
ruderi di fortificazioni narravano
l’eco dell’antica Abbazia di San Silvestro di Pietrabattuta. I percorsi si
chiudevano tra ginepri e
prugnoli, dove l’erba alta e la vegetazione incolta celavano
le visuali. Soltanto allontanandomi riuscivo a scorgere quello che ne rimaneva
tra
gli alberi: importanti mura si tenevano in equilibrio tra edere e
roverelle, all’ombra della loro condizione predestinata che una Natura
intransigente
riprendeva a sé. I resti più importanti delimitavano a malapena uno spazio quadrangolare, altri rinvenimenti non erano più
visibili, come gli accessi ai piani interrati o l’antica fontana d’acqua perenne.
Per approfondimenti: “Il Castello di San Silvestro e l’Abbazia
di San Silvestro di Pietrabattuta” di Maria Rita Acone, One Group Edizioni,
2009.
Il versante Nord del massiccio del Sirente si avvaleva della
bellezza contrapposta di morbidi pendii boscosi sovrastati da severe bastionate
rocciose, luoghi impervi e desolati a ridosso della morbidezza di fogliami
rosseggianti. Seguivamo il sentiero n° 15 con segnaletica CAI
del Parco
Regionale Sirente-Velino che dallo chalet presso Fonte all’Acqua raggiungeva la
cima della montagna. Il percorso ricalcava
parte di antiche mulattiere in
passato percorse dai boscaioli che vivevano di quelle faggete, e dai nevaroli che in tempi remoti erano
soliti raccogliere il ghiaccio nel ventre della Neviera, antichi mestieri che riecheggiavano
alla memoria ad ogni svolta di sentiero, tra una
bellezza filtrata di luce
calda e il sottobosco accogliente. Usciti dal bosco lo sguardo si innalzava su
bastionate di roccia verticali, dove un
percorso aereo marcava la via più
agevole, mentre alle nostre spalle ammirava i profili del Gran Sasso e della
Majella, per poi andare a
perdersi oltre, lungo i confini del mare e del cielo.
Attraversavamo la Valle Lupara nella sua parte alta, col privilegio di un punto
di vista che
ne contemplava la conformazione maestosa, dove punti di fuga e
pensieri scivolavano ripidamente nel suo canalone ghiaioso. Raggiunto
il filo
di cresta ai nostri occhi si apriva anche la visuale verso Sud, dove ogni
rilievo declinava dolcemente dando respiro a stazzi e vallate.
Anche qui la
vista era magnifica e aperta, tra radure desolate e lunari raggiungevamo
facilmente la cima, con lo sguardo rivolto anche verso
gli altri profili dei monti
d’Abruzzo. Il percorso è indicato per escursionisti esperti, ha un
dislivello di circa 1200 metri per una
lunghezza complessiva di 12 km. Se non
si ha conoscenza del percorso è importante affidarsi a guide competenti, per
una giusta sicurezza, per il
rispetto dell’ambiente, del prossimo e di se
stessi. Articolo pubblicato sul portale abruzzoturismo.it - link - come rappresentante “Abruzzo
Smart
Ambassador”.

L’autunno incedeva tra boschi e radure, tra nitidezze e
rossori, mentre l’aria si mistificava nel silenzio di un cammino solitario.
Quando si è soli spesso si hanno più voci da ascoltare, sono i propri pensieri
che
prendono forma a seconda dell’importanza. I problemi vari del quotidiano
grazie alla suggestione della Natura smussano angoli e addolciscono le forme,
si sciolgono fino a divenire inesistenti: la quiete
dei panorami si
impadronisce del cuore portandolo in armonia con la mente in un pari passo
univoco e risanante. Ovunque tutto è bellezza, ogni scorcio, ogni ramo, ogni
sasso, nasconde la magnificenza, ogni
piccolo aspetto ha in sé il valore della
grandezza. Si assecondano le curiosità, si annullano le paure, si procede solo
verso se stessi e la Montagna. Sopra la Costa Serpentana, a quota 1420 metri su
un piccolo
colle, notavo dei frammenti di terracotta, alcuni interrati, altri
dispersi. Un probabile basamento raccontava la presenza umana, ma ne rimaneva
soltanto l’intuito di una curiosità irrisolta.

Da Gagliano Aterno partiva una lunga strada che saliva verso
il versante sud-orientale del Sirente, alle cui pendici vi era la Piana di
Baullo,
antico e importante luogo dedito al pascolo e alle coltivazioni d’altura. Oltre
vi era la Piana del Fucino, velata dalla nebbia, che
lasciava scorgere a
malapena la suddivisione geometrica dei suoi campi coltivati. Il Libeccio ci
donava visioni di prospettive aeree che
alleggerivano le montagne lontane,
mentre da vicino i boschi rosseggianti trovavano assonanza con il calore del
sole. La quiete era su
ogni pendio, che dalla cima della montagna scivolava nelle
valli sottostanti, tra bellezza e suggestioni di memorie lontane, come il
leggendario Vallone dell’Inferno, generato dallo scaccio del Diavolo ad opera
della Madonna del Carmine. Le leggende di Gagliano Aterno
narravano di un
viandante a cavallo, forse San Martino, che lungo la via per la piana di Baullo
trovò un bambino abbandonato e indifeso che
volle salvare, ma che appena lo
prese in braccio si accorse che era molto pesante: era il demonio in persona
sotto mentite spoglie. In
soccorso al cavaliere giunse la Madonna del Carmine: il
demonio venne scaraventato a terra dove si generò una profonda voragine in cui
sprofondò, che prese per l’appunto il nome di Vallone dell’Inferno. Gli
abitanti di Gagliano Aterno vollero edificare nel luogo dell’apparizione,
sul
ciglio del precipizio, una piccola edicola affrescata con l’apparizione della
Vergine, a protezione del luogo e dei viandanti, che
nella memoria collettiva erano
soliti gettarvi un sasso ad ogni passaggio per scongiurare il male. L’edicola
originaria con l’affresco della Vergine
venne distrutta per favorire l’allargamento
della strada, ne venne edificata un’altra più a valle per mantenere la
tradizione, ma un
importante tesoro era andato perduto per sempre.
