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Il
1 maggio del 1947 circa duemila lavoratori, soprattutto contadini, della Piana
degli Albanesi si erano ritrovati nell’avvallamento di Portella della Ginestra
per manifestare
contro il latifondismo. Da poco il Blocco del Popolo aveva
vinto le ultime elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, si potevano
occupare le terre incolte e festeggiare la vittoria appena
conquistata.
Improvvisamente, dalle colline circostanti, partirono numerose raffiche di
mitra, la gente in festa e fiduciosa per il futuro si trovò persa e
terrorizzata, 11 persone morirono sul
colpo, mentre altre morirono in seguito
per le ferite riportate. Furono accusati i latifondisti, ma circa dopo quattro
mesi venne fuori la verità, che dietro
quelle mani portatrici di morte si
nascondevano gli uomini del bandito
Salvatore Giuliano. Dopo anni, Portella della Ginestra ricordava quei morti
attraverso un’opera di land art, i nomi delle vittime si incidevano nella
pietra
e portavano con sé il colore rosso del sangue. L’erba secca e i fiori di
cardo suggerivano la solitudine che provava l’uomo al cospetto dei terribili
avvenimenti, delle tristi memorie che ormai sono
accadute e non si possono più
cambiare. Il vento portava nuvole e contrasti, mentre la memoria rimaneva fissa
sulla pietra.
Fuggivamo
dal traffico di Palermo alla ricerca di dimensioni più tranquille, eravamo
diretti a Monreale per ammirarne l’abitato e la bellezza del famoso Duomo, Patrimonio
dell’Umanità. La maestosa cattedrale lasciava leggere la sua bellezza già dal
di
fuori, ma una volta varcata la soglia d’ingresso scoprivamo un ulteriore splendore:
l’interno della chiesa era completamente rivestito d’oro, decorazioni e mosaici
raffinatissimi avevano il privilegio della rifrangenza, amplificando la luce
del sole in un
irradiamento prezioso. Era una luce diversa, ricavata dall’ombra,
in grado di portare con sé il silenzio degli spazi, tutta la sua storia e il
mistero dei secoli. Il sacro era in grado di dimorarvi nonostante l’ostentata
ricchezza, trovava in tutto quell’operato
minuzioso la dedizione di chi
attraverso il lavoro portava il proprio sacrificio. Al di fuori della maestosa Cattedrale,
l’abitato di Monreale si componeva di circuiti turistici ben tenuti, strade pulite, piccole botteghe e negozi. Proprio dietro la chiesa c’era
una
bottega del mosaico, con un’artigiana intenta a compiere il suo lavoro, incasellando
piccoli tasselli di vetro con foglia d’oro, le chiesi delle informazioni in
quanto anche io ero in grado di operare la tecnica delle vetrate, e così cominciammo
una
piacevole conversazione, alla fine della quale mi regalò un piccolo
tassello d’oro asserendo che mi avrebbe portato fortuna. Ci sono delle persone che
anche se sconosciute hanno la capacità di distinguersi positivamente, forse grazie
all’abilità sita in loro della
creazione, si differenziano anche se non si
conoscono. La prossima volta che opererò con il vetro inserirò quel piccolo
tassello d’oro.
Sotto
Palermo, ingarbugliata di strade, dove tutti correvano freneticamente,
riposavano le Catacombe dei Cappuccini. Tutto immediatamente si spegneva,
cessavano i rumori, e persino la gente non parlava più. Centinaia di mummie si
disponevano a
rivestire le pareti dei corridoi comunicanti, diventando materia
espositiva di quello che un tempo era la vita. Chissà quanti sogni avevano motivato
quelle membra, quante speranze e sentimenti avevano esaurito quella materia organica.
Tutto giaceva come
sostanza immobile, il penultimo stadio prima della polvere,
prima di quel tutt’uno generale che mi piace pensare come elemento sostanziale
del mondo. I vivi si prendevano gioco della morte mettendone in vendita l’apparenza facendo pagare un biglietto
all'ingresso;
lì sotto c’erano tutte le classi sociali divise per categoria, come se fosse un
dettaglio irrilevante che la morte sia l’unica portatrice di uguaglianza.
La Valle delle
Mine godeva della bellezza di colori accesi, il verde intenso dei prati e dei
pini trovavano il contrasto con il lungo
torrente che serpeggiava nel suo seno.
Più ci addentravamo al suo interno e più scoprivamo la bellezza persistente dei
ghiacciai, che
al di sopra dei nostri occhi parevano i custodi dell’intera
vallata. Dai ripidi pendii erbosi scendevano rivoli di sorgenti, così netti e
marcati, in grado di segnare il volto della montagna. Il sentiero per la mountain
bike trovava nella sua viabilità tutte le
evoluzioni, da comoda ciclabile a ripido
single track, offriva scenari unici di grandissima bellezza, fino a perdersi nel
fitto del
bosco di larici, dove altri percorsi attrezzati erano in grado di
fornire ulteriori servizi (Larix Park). La montagna, così
intelligentemente
gestita, era in grado di fornire la giusta tutela del territorio.
La valle del Chiarino refrigerava le sue zone d’ombra grazie
al corso del fiume, quell’acqua gelida era in grado di creare un
microclima all’interno
del bosco totalmente diverso da quello che era fuori. Il calore del sole
premeva sulla grande vallata aperta,
tanto da indicarci come miglior percorso
per Monte Corvo il suo filo di cresta, dove il vento movimentava l’aria e
donava
refrigerio. La lunga dorsale panoramica lasciava scoprire fin da subito alte
prospettive, il nostro sguardo incrociava quello delle
altre montagne dandoci
la sensazione di cavalcare la schiena di un gigante. Da ogni angolazione
scoprivamo panorami esposti di
grandissima bellezza, aperti al di sopra di
boschi e vallate: lo sguardo si soffermava nelle prossimità del nostro cammino
per
poi scivolare a valle verso interminabili pendii ammantati di falasco. La parte
sommitale di Monte Corvo si vestiva del grigio
chiarore degli sfasciumi: la
roccia era alla ricerca della stessa tonalità delle nubi, che il vento giocava
a stendere da un lato della
montagna, allungando così la percezione della
terra. Su quel suolo lunare si compiva un lungo filo di cresta, sempre più tagliente
in
direzione della Sella di Monte Corvo, dove le correnti ascensionali compivano
frenetici tragitti verticali, segnando un netto
contrasto visivo da un lato e l’altro
della montagna.