sabato 31 luglio 2010

Castello di Fagnano e i Falconieri dell'Aquila


I falchi hanno voli leggeri, ma ancor più silenziosi sono i gufi. Si muovono nell’aria tagliandola di netto, senza smuoverla e causando il minimo rumore. Secondo le varie tradizioni i loro versi sono canti funesti, malauguranti e portatori di sventure, eppure io ho notato solo tanta bellezza ed eleganza nel mistero di due occhi fissi in grado di vedere dove gli altri non possono. Era da un po’ di tempo che avevo notato l’attività dei Falconieri dell’Aquila nell’iniziativa di coinvolgere la gente ad approcciarsi al mondo dei rapaci. La mia curiosità è stata sollecitata fin da subito. Per me che sono abituata a vederli da lontano, in montagna, dove la gente difficilmente arriva, avere adesso la possibilità di poterli ammirare finalmente da vicino era un’esperienza che non potevo mancare. Finalmente potevo seguire le linee di quei piumaggi e di quei profili, finalmente potevo osservare e scrutare quella dimensione così solitamente inavvicinabile. L’occasione è capitata oggi, grazie ad una dimostrazione di volo allestita nei pressi di Castello di Fagnano Alto. Tra falchi, poiane, gufi e gheppi, c’era anche la presenza nobile di una bellissima giovane Aquila. Il rapporto tra i rapaci e i falconieri è un connubio antico, la cosa più bella per me è stata quella di riscontrare questo rapporto d’amore anche da parte dei falchi: seguivano liberamente in volo nel bosco i loro ammaestratori e ne rispondevano al richiamo, esprimendo così, anche da parte loro, questa fratellanza. Sul web hanno un piccolo sito in cui sono riportati tutti i loro contatti. Quella di oggi è stata anche un’ottima occasione per visitare di nuovo Castello, una delle più belle frazioni di Fagnano Alto. La mia bisnonna era di queste parti. Un cartello turistico esplica qualche informazione sul territorio: Fagnano Alto è un’entità amministrativa costituita da diversi nuclei sparsi che formano il municipio, un’organizzazione territoriale che deriva dalla sua storia: fu probabilmente un pagus vestino che aveva diversi vici. Mura poligonali che sostengono una terrazza tra Castello e Opi, tombe a cripta presso Campana ed in altre località, sono la testimonianza di una presenza assidua sul territorio. Documenti storici ci indicano già dal XII secolo la prima comunità di Fagnano, designata col nome di Ofeniano; nel XIII-XIV secolo compare come Castrum de Ofeniano, ma si conosce anche come Offegianum e Fangeanu. Nel 1311 anche Fagnano faceva parte del contado aquilano e dava il suo servizio feudale. Dalla trascrizione di un’epigrafe da parte di M. Accursio si ha notizia che già nel XVI secolo la comunità di Fagnano era formata da 10 villaggi: “Ripae unius ex decem pagis Fanianis agri Aquilani”, (Fagnano, Vallecupa, Campana, Corbellino, Colle, Pedicciano, Frascara, Opi, Castello, Termine e Ripa). I diversi nuclei abitati “sparsi”, quindi, si dislocarono in maniera tale da gestire e controllare tutto il territorio, strutturandosi con modalità diversificate. Si distribuirono su diverse fasce altimetriche, partendo dal fondovalle lungo il fiume Aterno, per risalire a mezza costa nei pressi di terreni da coltivare su declivi terrazzati e si posizionarono sulla sommità a controllo e difesa della vallata. Sorsero in forma di borghi medioevali nei pressi di edifici religiosi come nel caso di Opi con la chiesa benedettina di San Massimo e di Campana con la chiesa di San Giovanni. Si svilupparono all’interno di borghi fortificati, come il borgo di Castello di Fagnano in posizione dominante, con la cinta muraria che racchiudeva le case e la chiesa di San Pietro. Colle, Corbellino e Vallecupa si adagiarono invece sul piano, in forma di borgo rurale nelle adiacenze dei campi coltivati. I vicoli di Castello tessono un perimetro ricco di storia e di tralci di sambuco. Conducono a due balconi principali, uno che affaccia sul Sirente e uno in direzione del Gran Sasso. Amavo il primo in modo particolare, lì c’era una panchina solitaria (adesso spostata a causa del terremoto) da cui si ammirava una condizione di pace, un punto di vista perfetto fatto di silenzio e tranquillità. Ho sempre pensato che chi avesse posizionato lì quella panchina fosse un genio.

domenica 25 luglio 2010

Eremo di San Giovanni all'Orfento da Decontra


I percorsi dei Santi seguono traiettorie difficili, esposte e pericolose, dove la condizione normale è disumana per la gente comune al di fuori dal Sacro. A ridosso di una delle pareti più aspre della Valle dell’Orfento c’è l’Eremo di San Giovanni, uno degli eremi più belli della Majella. Ne avevo tanto sentito parlare sia per la sua particolare inaccessibilità e sia per la famosa permanenza eremitica di Celestino V in questo luogo: pare che vi abbia dimorato per quasi nove anni, dal 1284 al 1293. Cosa può spingere l’uomo a cercare quella condizione mentale così pulita in grado di annullare in tal modo il proprio istinto di sopravvivenza? Cose da Santi. Chissà cosa provava Pietro da Morrone (futuro papa Celestino V) la prima volta che ha percorso quei boschi, annusato quei fiori e ascoltato le melodie soffuse di quel sottobosco. È davvero un luogo misterioso e raccolto, dove si è isolati dal mondo e la terra emana in continuazione energia. Partiti da Decontra (810 m) abbiamo seguito una comoda e assolata carrareccia fino a raggiungere la località di Pianagrande (1537 m). L’odore delle ginestre ci accompagnava lungo il tragitto, amplificato dal calore del sole… quello è un profumo talmente intenso che una volta impresso lo tieni dentro come un ricordo. Le varie capanne a tholos incontrate lungo il cammino ci facevano ricordare l’importanza storica della terra d’Abruzzo, un bagaglio culturale immenso, spesso inosservato (sua fortuna e sfortuna). A riguardo ho trovato un cartello che dice: La capanna a tholos abruzzese, di evidente derivazione dalle “specchie” di Puglia, prototipi del trullo, è giunta a noi attraverso le vie di transumanza. Il tipo di costruzione, che nella forma esterna ricorda la capanna primitiva in fango e ramaglie, anche strutturalmente risale i millenni con gli esempi ciprioti e mesopotamici del VI millennio a.C. Costruzioni più o meno simili, antiche o recenti, si rinvengono in quasi tutta Europa nei luoghi in cui la grande disponibilità di materiale pietroso in blocchi e lastre e il difficile reperimento di materiale più comodo ne hanno favorito la nascita. Il nucleo di gran lunga più consistente della capanna abruzzese si trova sulla Majella con oltre 500 esemplari. Piccoli nuclei, sempre di importazione pastorale, si rinvengono nella Montagna dei Fiori, sul versante meridionale del Gran Sasso e nelle campagne di Castiglione Messer Marino. Nei comuni di Roccamorice e Lettomanoppello si hanno i complessi più interessanti e la maggiore densità di capanne. Giunti a Pianagrande (1537 m) abbiamo seguito il sentiero nel bosco che scende la via più comoda per raggiungere l’eremo (1227 m), gradini e gradoni ricavati dalla roccia con addirittura delle fessure scavate come appiglio per le mani. Come dico sempre io è più l’impressione che altro, ma la stessa cosa non posso dirla altrettanto per l’ingresso effettivo dell’eremo: lì mi sono impressionata sul serio. La scalinata e il camminamento sono scolpiti lungo una liscia parete verticale, senza il minimo appiglio e dove l’esposizione è molto forte. Il punto finale del camminamento si stringe così tanto che per poterci passare bisognerebbe necessariamente strisciare sotto la roccia girando un angolo di circa 90°. Senza la minima sicurezza è troppo evidente il salto sottostante. A poco dalla strettoia mi sono rigirata, con una botta di adrenalina che mi ha fatto addirittura tremare le ginocchia… (è meglio fare da sdraiati tutto il camminamento e non andare in piedi...) ci sono delle volte in cui il mio istinto di sopravvivenza urla. Mi sono accontentata di ammirare l’eremo dal basso, forse è giusto che sia così. Anticamente nel punto più brutto c’era una piccola passerella di legno che aggirava l’ostacolo, che veniva tolta in caso di pericolo e per renderla inaccessibile. Credo sia un bene che non abbiano rimesso un qualcosa di simile, a rispetto del Sacro e dei Santi Alpinisti.
Dati del GPS: Percorso totale 18.3 km - Percorrenza 6,40 ore compreso soste - Altezza max 1547 m s.l.m. - Altezza minima 824 m s.l.m.

giovedì 22 luglio 2010

Monte Corvo da Prato Selva per il Campiglione, la Valle del Venacquaro e il Rifugio del Monte

Monte Corvo (2623 m) è un gigante, la sua dorsale imponente sembra la schiena di un dio. Non ha bisogno di particolari punti di vista per imporsi: da qualsiasi parte lo si guardi dimostra sempre la sua mole possente. L’ho sempre ammirato da dove potevo, e ogni volta lo scrutavo dalle altre montagne, immaginando quale potesse essere la via più fattibile per salirne la cima. Partiti da Prato Selva (1375 m) abbiamo risalito il percorso del Bike Park fino a Colle Abetone (1775 m), e da lì abbiamo proseguito in direzione del versante Est di Monte Corvo, dove c’è un’area che prende il nome di Campiglione. La nostra intenzione era quella di intercettare la cresta il prima possibile, così, ignorando la traccia dell GPS di Gigi, ci siamo appettati una pendenza fatta di ghiaioni, falasca e uva ursina che se non era al 100% poco ci mancava. Sulla carta (basta cliccarci sopra per ingrandirla) ho messo due punti rossi ad identificare i passaggi più difficili di tutto il giro, e questo ne è uno. Intercettata la cresta siamo arrivati comodamente sulla cima di Monte Corvo (2623 m). Quello che si vede da lassù placa l’anima, dà piacere, e ricompensa dell’impegno messo a disposizione per salire (provare per credere!). Le nuvole che salivano dal versante Nord, toccavano la cima e, scontrandosi con altre correnti, si arricciavano su loro stesse. Sembrava un gioco. La visibilità maggiore ci era concessa soprattutto a Sud: finalmente una nuova prospettiva! Da qui potevo guardare le montagne dirimpettaie di Monte Corvo, quelle da cui lo scrutavo: Pizzo Cefalone, Pizzo Camarda e Monte Ienca soprattutto. La croce di Monte Corvo purtroppo è staccata, se il tempo mi faceva stare un po’ più tranquilla avrei anche proposto alle altre tre persone che erano con me di provare a rincastrarla di nuovo… e vabbè… (magari alla prossima). Ripreso il percorso siamo riscesi in direzione della Sella di Monte Corvo (2305 m), dove dei bellissimi passaggi su roccia inasprivano di molto il paesaggio, ma è più l’impressione che altro, sono molto facili. Svalicata anche la Sella abbiamo continuato a scendere, calando un notevole dislivello di circa quattrocento metri. Ad accoglierci ora c’era la Valle del Venacquaro, una conca isolata che se vede 100 persone all’anno è pure troppo. Davvero bellissima. Da lì dovrebbero partire due sentieri, purtroppo noi distrattamente ne abbiamo intercettato solo uno (quello sbagliato) l’unico visibile da dove venivamo noi. Per riprenderci da questo errore e riprendere così la traccia del GPS abbiamo attraversato (contro la mia volontà) il precipizio che ci separava dal pianoro dove si trova il Rifugio del Monte. Una pendenza oltre il 100% che non rifaccio manco se mi pagano. Rintercettata la traccia e tirato un sospiro di sollievo abbiamo raggiunto il bellissimo Rifugio del Monte (1614 m), chiuso e senza bivacco annesso, l’unica cosa positiva è che c’era una fontanella vicino. Da lì ricongiungerci con Colle Abetone (1775 m), chiudere l’anello, e riscendere per il sentiero del Bike Park non ha comportato altri grossi impegni. Secondo i dati delGPS del temerario Gigi abbiamo percorso 22,6 km, con un dislivello totale di 1747 metri; tempo di cammino effettivo di 8 ore e 14 minuti (ma abbiamo sforato abbondantemente le 10 ore, forse pure 11 a causa della pendenza ripida). È stato un giro bellissimo!!!

lunedì 19 luglio 2010

Campana


La notte a volte è morbida, contiene i volumi, li controlla, e modella solo quello che vuole far vedere. Ero stata già altre volte in questo posto, ma sempre di giorno: il silenzio che avevo percepito lì con la luce ora era amplificato dal buio. Pensavo a John Cage e alla sua celebre 4’33. È incredibile quanti suoni e quanti rumori può contenere il silenzio. Alcune gatte tracciavano quei piccoli vicoli, e il loro passaggio sottolineava ancora di più quella dimensione pulita, lineare e anacronistica di una notte semplice. Le luci dei lampioni immortalavano una quarta dimensione, sembrava sogno? Sembrava realtà? Se ci ripenso adesso quello che mi torna in mente è più vicino ad una condizione onirica che ad altro. A volte ci sono degli spazi metafisici che sintetizzano tutto e si proiettano nell’anima. Sono posti che si ripetono di città in città, di paese in paese. Potrei passare ore ad assistere a tutto questo. Pensavo a De Chirico e a Federico Fellini. Solo un angolo di Campana era vissuto dalle voci di alcuni apprendisti funamboli e dal rumore sordo dei colpi di frusta delle corde che, indomabili, si rimpossessavano bruscamente della loro originaria tensione. Ma la cosa non disturbava quel contesto, in fondo erano tutti giochi di equilibrio. Mi manca la montagna. Ora più che mai. Ultimamente sto vivendo più la notte che il giorno, e la cosa mano mano mi stadisorientando. Il video non è di questa notte ma di qualcun altra fa, dove ero in un altro luogo, con altri amici. Tra funamboli, giocolieri e dansatrici del fuoco forse ho capito dove si colloca l’altrove. Benedetta notte, sei dolce come il bacio di mia madre.

domenica 11 luglio 2010

Sentiero del Centenario


Ho sempre sentito parlare del sentiero del Centenario come il più attraente e spettacolare dell’intero Appennino. Personalmente non ho molti parametri di giudizio per potermi esprimere in maniera obiettiva, ma posso dire senza dubbio che è stato un giro bellissimo! Siamo partiti intorno alle 6 e mezza di mattina dalla sterrata che conduce a Vado di Corno (1924 m), ufficialmente è da lì che inizia il sentiero del Centenario. Considerata la lunghezza del percorso siamo partiti un po’ tardi rispetto una giusta scaletta tempistica, ma di meglio proprio non si poteva fare (e tra l’altro io stavo pure con tre ore di sonno!!). I colori di questa mattina erano davvero meravigliosi, e le montagne tramite quelli rivelavano tutta la loro leggerezza, scoprendosi come sacre. Guardare quei colori era come assistere ad una preghiera. Tutta la parte iniziale del percorso che passa su Monte Brancastello (2385 m) è stata una mano santa, perché attraverso la sua esposizione e la sua facilità mi ha dato modo di accostarmi in maniera graduale a tutto l’itinerario, insomma come una sorta di riscaldamento fisico e mentale. Non avendo la benché minima esperienza di ferrata, l’impatto visivo iniziale con le Torri di Casanova (2362 m) non è stato molto esaltante: l’attacco è ripido, e le corde e le scalette sono le stesse dal 1974. Non me l’aspettavo, credevo di avere più paura, eppure una volta su sono riuscita a trovare una giusta naturalezza nel contesto, i pensieri mano mano si sono accostati alla pietra, e il contatto con essa addirittura mi faceva stare tranquilla. Sembra assurdo ma è così. E poi ero in ottima compagnia (e quella fa tanto) in totale eravamo sette persone, di cui quattro accompagnatori del CAI di L’Aquila (Latino Bafile, Leucio Rossi, Gianluca Torpedine e Mario D’Angelosante). Abbiamo eseguito il percorso in tutta sicurezza, con casco, imbrago e kit da ferrata. Per chi ha più esperienza alpinistica magari tutto il percorso può sembrare così semplice da non prendere precauzioni (scrivo questo perché abbiamo incontrato diverse persone che eseguivano questo giro senza avere nessuna sicurezza, nemmeno il casco, e si calavano dalle rocce facendo presa sempre e solo sulla corda), eppure lì basta un attimo di distrazione per mettersi nei guai, perché molte corde sono lasche e arrugginite (diversi chiodi sono saltati), e le rocce sono friabili: alcune ti rimangono in mano, per non parlare poi di tutte quelle che si smuovono ad ogni passo e che vanno addosso a chi sta di sotto! (C’è stato un momento che s’è gelato il sangue a tutti perché stavamo risalendo un piccolo tratto tendenzialmente ripido prima di arrivare alla successiva corda fissa, e mi sono aggrappata ad una pietra che si è rivelata mobile, l’ho lasciata subito e come mi sono spostata a tre metri di distanza da noi si è innescata una piccola frana… quindi non credo proprio si debba sottovalutare questo percorso). Tutte le persone che erano con me avevano già fatto il sentiero del Centenario, alcune più di una volta, e ognuno, riportando la propria esperienza, ha sottolineato il fatto che non se lo ricordava così degradato, ma più scorrevole e percorribile: l’ultima esperienza è di due anni fa, forse allo sfacelo avrà contribuito il terremoto. La vista che si gode da quelle creste rocciose è spettacolare, oggi poi siamo stati molto fortunati perché abbiamo trovato ad accoglierci una giornata splendida, con una pressione così alta da scongiurare qualsiasi temporale. Lo sguardo correva lontano, fino a raggiungere il mare. È incredibile la sensazione di pace che trovo sulla cima delle montagne, forse è proprio vero che è il posto più vicino a Dio. Cresta cresta abbiamo superato Monte Infornace (2469 m) e Monte Prena (2561 m), portandoci in maniera obbligata fino al Vado di Ferruccio (2233 m). La via Normale di Monte Prena (2561 m) non è più tanto “normale” perchè è venuta giù tutta, scoprendo la pietra viva sottostante. Mano mano che passa il tempo la Natura si sta evidentemente rimpossessando di quel pezzo di paradiso. Mentre ero sdraiata su Monte Infornace (2469 m), a contemplare il meraviglioso affaccio sul teramano, ho visto con gran sorpresa un folto numero di camosci destreggiarsi tra quelle rocce, quella in fondo è la loro terra, chissà se se la riprenderanno tutta prima o poi. Arrivati a Vado Ferruccio io ero l’unica che voleva completare il percorso e salire su Monte Camicia (2564 m): non mi si è filata nessuno! Mannaggia la finale dei mondiali di calcio! Comunque va bene anche così, in fondo ero stanca anch’io e di certo non mancherà occasione di ripercorrere di nuovo tutto il sentiero (sperando che non peggiori!). La parte più brutta è stata quella finale: 4 km di strada sterrata monotona fino a quella asfaltata dove ci attendeva un piccolo pulmino che ci avrebbe riportato alle macchine. Secondo i dati del GPS abbiamo percorso 19,7 km impiegando 12 ore (di cui 7 h 33 min in movimento e 4 h 37 min di pause e ferrate), con un dislivello complessivo di circa 1390 metri.