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Le strade di Saepinum avevano l’odore dolce dei fiori
di biancospino, le percorrevamo all’ingresso della primavera, con i
toni più brillanti
del verde dei prati. Salivamo le antiche vie sannite che in passato avevano
popolato le montagne del Matese,
percorsi dimenticati tra rovi e prugnoli,
difesi dalle spine di una natura incontaminata. Lungo la via, i resti dell’area
archeologica
di San Pietro e del Conventino avvaloravano l’importanza di quell’antico
territorio, ma era sulla cima del colle che trovavamo
l’insediamento più
importante: lì vi erano i ruderi di Terravecchia, l’antica Sepinis sannita, protetta dal bosco e
inaccessibile da strade. La natura
si riprendeva quello che l’uomo le aveva tolto nei millenni passati, le pietre
lavorate lasciavano
leggere a malapena i loro profili, e tutto tornava nella
bellezza incontaminata. Compivamo il nostro giro in bici
intercettando nella parte finale l’antico
tratturo: usciti da Porta Terravecchia rientravamo per Porta Benevento, che come un
varco temporale ci dava l’emozione di calcare un’importante via compiuta
dai nostri antenati.
Fuori Porta la Montagna il bosco ci accoglieva indicando
marcatamente i suoi sentieri che dal basso della città si levavano sui rilievi
di appartenenza. I ruderi della Rocchetta si esponevano
tra i pini ormai così
grandi da chiudere le antiche traiettorie visive, che un tempo traguardavano le
altre torri di avvistamento di Coppito, di San Vittorino, di Preturo e San
Marco, di Casaline e
dei Colli di Barete. Gli storici datavano la Rocchetta al
XII secolo, ormai rimanevano soltanto pochi sassi e la percezione di una forma
circolare. Percorrevamo il filo di cresta di Monte Pettino
fino a Croce Cozza,
dove il panorama si apriva verso tutte le direzioni, per poi scendere nella
Valle Cascio, tra il labile equilibrio di boschi secchi persi nel tempo e nei
muschi. Su
un piccolo colle giacevano i ruderi di San Severo che nonostante
deturpati dal peso degli anni rendevano ancora la loro importanza. Gli
affreschi del XIII secolo (secondo gli storici di
grande bellezza) erano stati
rubati, ne rimanevano pochi stralci a rendere la vibrazione dei loro antichi
colori, protetti da una volta a vela in procinto di crollo, realizzata con
mattoni a coltello a
vista. Affianco la chiesa altri ruderi identificavano una
probabile Foresteria, tutto si perdeva nell’incuria e nell’incompetenza di chi
questi beni avrebbe dovuto tutelarli.
Di seguito una
citazione tratta da Fuori Porta La Montagna Note Illustrative a cura di Carlo
Tobia, p. 31.
Per una descrizione dell’interno della
chiesa come si presentava
agli inizi degli anni 60 vedi p. G. Marinangeli,
Severo pitinate dispensator nel 475 della chiesa di Aufinum, Roma, 1963, pp.
40-43. Riportiamone un brano: […] iniziando dall’angolo in cornu
epistolae: S.
Lucia, Madonna con Bambino. Irriconoscibile la figura successiva. Indi un Santo
Vescovo e Dottore: forse Sant’Agostino od anche S. Martino. Sotto questi
affreschi, che
probabilmente risalgono alla prima metà del sec. XIII, quando il
monastero fu donato ai Canonici Lateranensi, si nota la parte affrescata con
motivi semplici in tempi ancor più vetusti. Il muro
di sinistra è stato
rinforzato con una parete aggiuntiva. Su questo lato è quasi interamente perito
il ciclo pittorico. […] nella parete della chiesa e in muri divisori della «foresteria»,
sono
incorporati frammenti lapidari che fanno sospettare che il luogo fosse
abitato nel periodo romano e il ductus delle iscrizioni funerarie si presenta
molto elegante.

Il Castello di
Arischia sorgeva su uno dei modesti colli tra il Monte San Franco e Monte Stabiata.
Seguivamo la via naturale del
Fosso del Ferone, che scendendo verso Sud Est
andava a trovare sfogo nell’incanalamento della selvaggia Terra Ardenza. I
vecchi
abitanti di Arischia ricordavano questa località coi toponimi di Castellaccio o Castello di Ariscola, conoscenze diffuse da
generazioni, ormai quasi
del tutto perse. Sul piccolo colle erano ben visibili i perimetri delle antiche
mura, messe in risalto dalla
pulizia di una campagna di scavi compiuta nel
2003, tuttavia non approfondita, ed erano la parte sommitale di uno strategico punto
di avvistamento. Le pietre legate con malte di calce, le mura a secco e i
terrapieni stimavano un probabile periodo normanno,
tutto intorno frammenti di
cocci si disperdevano come banali sassi, confusi ancora di più da una leggera
nebbia che ne attutiva
maggiormente i colori. Arischia, fondata dai Saraceni
nel X secolo, celava tra questi modesti rilievi la sua leggendaria Valle
Saracena, dove secondo la tradizione
vi sarebbero stati seppelliti quegli arabi che non vollero convertirsi al
cristianesimo.
Per approfondimenti
sulla campagna di scavi eseguita nel 2003 un articolo di Alfonso Forgione (Università
degli Studi dell’Aquila) nel seguente link.