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La Baia delle
Zagare e quella di Vignanotica trovavano congiunzione attraverso un percorso
panoramico di grande
bellezza, affacciato sul Mare Adriatico e custodito dall’ombra
dei pini d’Aleppo. Le parti esposte al sole godevano del profumo
intenso del
rosmarino selvatico, che grazie alle miti temperature dell’alta pressione (più vicine all'estate che alla
primavera) esaltava maggiormente la sua essenza. La
costa orientale del Gargano si vestiva di falesie di calcare bianchissimo
sormontate
da scoscese coltivazioni di uliveti poste a strapiombo sul mare, un equilibrio al limite
delle possibilità umane nel
rendere coltivabili anche i terreni più estremi. Una
biforcazione del sentiero scendeva a trovare sfogo nella Baia di Vignanotica,
scoprivamo
un luogo che manteneva inalterato il suo aspetto selvaggio, definito da perpendicolari
perfette di maestose falesie.
La spiaggia correva sotto quel muro naturale
rubando al mare pochi metri, mentre sulle nostre teste volavano falchi
pellegrini,
gheppi e corvi imperiali. Oltre a noi, c'erano soltanto pochi turisti stranieri a godersi il mare
di primavera, silenziosi nel loro riposo
e rispettosi della nostra terra. Nelle ore più calde trovavamo riparo dall'intensità del sole all’interno
delle tante grotte nella parete
calcarea, solo l’acqua gelida di un bagno precoce ci ricordava la stagione
attuale, per il resto era come se fosse già iniziata l’estate.
Il sito archeologico
di Pietrabbondante beneficiava della bellezza delle campagne molisane: distese
immense di verde correvano lungo tutti gli orizzonti lasciando emergere i
piccoli paesi del territorio arroccati sulle proprie rocce. Ogni piccolo
abitato era
figlio di terra scarnificata, la roccia veniva fuori come un’ossatura
di sostegno, in grado di animare la terra come un essere vivente, mentre tutto
il resto era morbidezza: lo sguardo
scivolava tra avvallamenti e piccoli rilievi, fino a perdersi in quella natura
quasi
del tutto incontaminata. Tra antiche pietre e mura megalitiche si rinnovava l'incanto della primavera, distese di margherite porgevano al vento la propria
bellezza, custodita dai filamenti d’erba nel pieno della vita, l’immortalità
era altrove, tra
capitelli, arcate e antiche strutture. Correvano millenni tra
noi ed i nostri antenati, eppure tutte le distanze si smorzavano nella stessa
considerazione di un luogo tanto importante. Il santuario di Pietrabbondante non rappresenta semplicemente il
maggiore
complesso architettonico del mondo sannitico e non ebbe soltanto una
funzione religiosa: era infatti direttamente controllato dai magistrati supremi
dello stato e – accanto alle cerimonie di culto - vi si dovevano svolgere anche diverse
attività di natura pubblica. Le sue origini risalgono almeno al IV secolo a.C.,
quando venne impiantata un’area quadrata delimitata da muraglioni di blocchi
irregolari, ancora riconoscibile tra il tempio grande ed il teatro. Si conosce
imperfettamente anche una successiva sistemazione di III secolo, che si ritiene
pesantemente compromessa ad opera dell’esercito di Annibale, nel 217 a.C.
All’inizio del II secolo, il santuario venne ricostruito nelle forme in cui si
conserva oggi, a
partire dal tempio piccolo (A): riprende lo schema dei templi
italici, costruiti su di un podio inquadrato in alto e in basso da cornici
modanate, con pronao ed unica cella. Negli ultimi decenni del secolo ebbe
inizio la realizzazione del complesso del
teatro-tempio grande, frutto della
progettazione di un anonimo architetto che rielaborò in maniera originale
elementi della cultura ellenistica, mediandoli dall’ambiente campano e latino.
Il teatro ripropone il medesimo schema decorativo di quello di
Sarno e dell’odeion
di Pompei; la cavea è costituita da un riempimento artificiale di terreno
contenuto da strutture in opera poligonale: solo l’ima cavea è costruita in
pietra, mentre la summa cavea doveva essere attrezzata con gradinate mobili.
Il
tempio grande (B) ripropone lo schema del tempio italico al quale si unisce la
caratteristica presenza di tre celle che alludono ad una triade di divinità
(non identificate), elemento certamente derivato dall’ambiente latino.
L’iscrizione sul fianco meridionale
del podio ne attribuisce in parte la
costruzione ad un personaggio storicamente noto, C. Statius Clarus, un sannita
che entrò poi a far parte del senato e partecipò alla vita pubblica romana. Il
tempio B venne frequentato per uno spazio di tempo
brevissimo: dopo la guerra
sociale il culto fu soppresso e il santuario, abbandonato, venne assegnato con
tutte le sue pertinenze a privati di parte sillana. (Il testo riportato in
corsivo è stato tratto da un cartello informativo del luogo).
Il cielo si
caricava della fitta presenza di nubi, spesso inclini a continue
precipitazioni. Il bosco di Castelrotto ci proteggeva
sotto la stretta tessitura
dei suoi rami, lasciando filtrare l’umidità in manifestazioni di nebbia svaporata, disposta più a conferire
mistero che a disorientare. La leggenda delle streghe viveva in quei boschi di
alberi altissimi, dove le piante compivano veri e propri
slanci verticali alla
ricerca della luce. Alcuni sedili in pietra ne rievocavano il mistero,
accrescendo di molto il proprio valore
grazie al contesto naturalistico
circostante: ogni cosa appariva incantata come sotto l’attrattiva seduzione compiuta
da una
megera. Il fondo del sottobosco si ammantava di morbide distese di
muschio impreziosite dai fiori dell’erba epatica, scoprendosi
solo lungo la via
del sentiero, ordinato e inconfondibile, che ci guidava nei nostri itinerari. Le
radure sommitali si aprivano al
cielo lattiginoso, la neve ghiacciata segnava
il limite del nostro cammino, suggerendoci percorsi più bassi. Il laghetto
artificiale
di Marinzen specchiava a tratti i riflessi delle montagne sbiadite
nella nebbia, la sua superficie viveva i giochi d’espansione delle
gocce d’acqua,
dove ognuna cercava l’altra attraverso l’estensione di anelli concentrici. La quiete
dei pascoli di alta
quota vedeva distese immense di verde, le piante compivano
tutte i propri miracoli, con la vita che rifioriva attraverso le gemme più
preziose.
Per dormire a Castelrotto consiglio: PENSIONE DORFBLICK - FAM. GOLLER KONRAD - S. MICHELE 4/1 - 39040 CASTELROTTO - ALTO ADIGE – ITALIA - TEL: 0039 349 1753438 http://www.dorfblick.it/ita/index.html
Le nuvole
pesavano sul cielo di Castelrotto, convertendone l’azzurro in una luminescenza
lattiginosa. Il caldo percepito nei giorni precedenti lo caricava
elettricamente, ed ogni lontananza
viveva il rimbombo della vibrazione dei
tuoni. Tra gli antichi boschi di abete rosso giacevano i resti di antichi
castelli, collegati tra loro da un fitto reticolo di sentieri perfettamente
curati. Quella
terra pareva accoglierci in ogni suo più piccolo angolo, anche
dove tutto appariva lontano dalla presenza dell’uomo, trovavamo la cura di chi
amava la propria terra. Il Castello di Salegg vedeva i
ruderi delle sue mura
innalzarsi al cielo, alla ricerca dello stesso slancio verticale del grande
massiccio dello Sciliar sullo sfondo. Il panorama godeva della vista di vallate
verdissime, così ordinate
ed omogenee da dar risalto alle malghe che accoglieva.
“Nel cuore del cosiddetto bosco di
Hauenstein nei pressi di Siusi allo Sciliar, possiamo vedere i resti
dell’antico castello Salego.
Probabilmente il castello fu costruito nel XII
secolo dai signori di Saleck. Assieme ai signori di Castelrotto, questi furono
citati come ministeriali del Vescovo di Bressanone verso il 1178.
Quindi il
castello era stato dato in feudo a varie famiglie. Nel 1473 la proprietà di
Castel Salego passa completamente alla famiglia Zwingensteiner. Nel XVI secolo
invece, il castello
faceva parte della possesso dei signori di Wolkenstein. Infine,
nel XVII secolo il castello cadde in rovina...” (Il testo riportato in
corsivo è stato citato dal sito www.seiser-alm.it
, in questa pagina
continua il resto dell’articolo).
L’ombra del bosco custodiva anche i resti dell’antico maniero di Castelvecchio,
poco distante, le sue pietre tenevano la memoria di tempi lontani, arroccate su
di un bastione di roccia e reso accessibile da una serpentina scalinata. Un tempo
apparteneva ad un menestrello, adesso apparteneva al bosco e a chi lo visitava.
Per dormire a Castelrotto consiglio: PENSIONE
DORFBLICK - FAM. GOLLER KONRAD - S. MICHELE 4/1 - 39040 CASTELROTTO - ALTO
ADIGE – ITALIA - TEL: 0039 349 1753438 http://www.dorfblick.it/ita/index.html
La montagna si
vestiva delle due facce della primavera, i lati esposti a Sud si innescavano
della nuova vita della vegetazione di
montagna, mentre a Nord tutto appariva
ancora serrato nelle mani dell’inverno. Dove giungeva il calore del sole la
neve si
scioglieva e dava spazio alla fioritura dei crochi, spesso lambiti dai piccoli
ruscelli di scolo generati dal disgelo. La zona
dell’Acquazzese appariva come una
terra mista, un luogo ibrido del transito delle stagioni dove si trovava di
tutto, dalla neve alle
foglie secche e all’erba rinnovata. I tanti canali a
Nord di Monte Ocre si riempivano di neve trasformata ormai da tempo, alcuni
tenevano in grembo lo scivolo di piccole slavine, mentre altri tenevano in
testa corone di cornici ghiacciate. Un passo dopo
l’altro il paesaggio cambiava
sotto i nostri occhi: più salivamo di quota e più il nostro sguardo scrutava a
valle alla ricerca di
visioni orizzontali. Sulla cima, i ripidi pendii si
smorzavano lungo il crinale roccioso, la primavera aveva scoperto il filo di
cresta,
rimarcando in questo modo il profilo della montagna. Molte delle
vallate sommitali continuavano a coprirsi di neve, quel manto
esitava a
scoprirsi nei punti di maggior accumulo, donando all’orizzonte il ricamo di
superfici maculate. Il bordo roccioso
della cresta di Monte Cagno viveva l’equilibrio
in bilico di enormi cornici di neve, alcune si erano addirittura staccate sotto
i nostri
occhi, dandoci così la possibilità di ammirare lo straordinario spettacolo
della forza della Natura.
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