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L’autunno faceva
ingresso nei boschi bordando di ruggine le prime foglie, mentre mucche e
cavalli si riposavano all’ombra delle faggete di Cinno. Conoscevo un nuovo
percorso per raggiungere la cima di Monte Giano, un sentiero aperto sul
versante laziale che lasciava ammirare il massiccio del Terminillo. Al di sopra
della Mozza l’umidità portata dal Libeccio scavallava visibilmente la montagna,
i paesaggi si ridisegnavano sotto i contorni della nebbia, apparendo più
suggestivi e malinconici.
Sulla cima di Monte Giano portavo una preghiera per
un ragazzo tedesco ormai morto da anni, un soldato della Seconda Guerra
Mondiale di cui non so il nome ma a cui forse devo la vita. Venne ucciso dai
suoi connazionali nel sottostante paese di Antrodoco
perché aveva aiutato la
famiglia di mia nonna, e forse anche altri aquilani. Purtroppo erano poche le
informazioni che avevo su questo ragazzo, mi sarebbe piaciuto tantissimo
conoscere il suo nome, ma purtroppo anche questa storia si era persa nell’oblio
dell’eternità. Mentre mia nonna era a L’Aquila, mio nonno partì giovanissimo
per la campagna di Russia, dove morirono quasi tutti i suoi compagni, tornò a
casa da solo attraversando l’Europa con tutti i mezzi possibili: a piedi, in
bicicletta, col treno,
sfruttando i passaggi sui carretti delle persone che
incontrava, non possedendo nient’altro che la sua vita. Una donna gli donò
l’abito da sposo di suo marito appena morto, e proprio con quell’abito mio
nonno bussò alla porta di casa di mia nonna
appena rientrò a L’Aquila,
finalmente potevano sposarsi. Erano stati talmente brutti gli anni della guerra
che a stento ne parlavano, forse volevano difendere i figli dai racconti di
quelle terribili esperienze, e per questo sia mia madre che i miei zii
hanno solo
dei ricordi vaghi. Antrodoco era sotto la montagna, e appariva e spariva sotto
il peso della nebbia, lì venne fucilato il milite ignoto tedesco che con la sua
vita aveva garantito la mia. La storia dei vincitori cancellava anche quella
degli eroi senza
nome, ma io non volevo dimenticarla, e pregavo Dio per la sua pace.


I
l Valico dello
Scalone era una delle porte di accesso al Piano delle Gravare, numerosi stazzi
davano vita a quelle distese
solitarie, modulate dalle doline e da leggeri
saliscendi. I manti erbosi di quelle ampie estensioni cominciavano a dorarsi
sotto il
peso di settembre: una natura rada, dispersa e solitaria, che aveva lo
stesso fascino del suolo della luna. Un gregge di pecore seguiva
la traccia di
una carrareccia, il silenzio dovuto alla distanza conferiva un ulteriore ordine
a quella visione, con il pastore al
seguito ed i suoi cani, intessuti della
stessa serenità di quella terra. Dalla Serra delle Gravare ammiravamo il gioco
d’ombra
delle nubi proiettate sulle valli, i colori si esaltavano sotto il
vento di Maestrale, vivendo il contrasto di gradazioni bellissime. La
cima di
Monte Greco svelava l’affaccio più alto dei Monti Marsicani: davanti ai nostri
occhi si apriva il cuore del Parco
Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, fatto di
creste rocciose ammantate da foreste fittissime. Alcuni cervi transitavano
sulla
Serra di Rocca Chiarano, la stagione degli accoppiamenti intensificava il
forte bramito dei loro richiami, maggiormente
udibili all’interno del bosco. Li
scorgevamo tra i faggi cercando di fare
il minor rumore possibile: assistevamo al dialogo della loro
razza, alcuni
ci scoprivano e si allontanavano, mentre altri si lasciavano indagare.

La valle del
Cicolano accoglieva il bacino artificiale del Lago del Salto, e mano a mano che
ci avvicinavamo alla diga ammiravamo l’imponente sbarramento cementizio alto
quasi una centinaia di
metri. Da giorni ormai mi rendevo conto che tutti i
luoghi visitati con l’ausilio della bicicletta erano percepiti più a misura
d’uomo, e che proprio per questo motivo quell’opera architettonica
adesso era
ancora più maestosa di come l’avessi vista in passato. Seguivamo la strada che
costeggiava il lago a Nord, passando per i paesi di Borgo San Pietro e
Sant’Ippolito, prima di intraprendere
la salita alla volta di Castiglione.
Alcuni piccoli agglomerati urbani segnavano la strada ancora per qualche
chilometro, dopo di che tutto si perdeva alla volta della montagna. Quella
strada asfaltata
rimarcava un’antica via di comunicazione, attraversava le montagne
ed entrava in Abruzzo, e l’emozione di riguardare dall’alto il mio territorio
mi appagava di un forte sentimento di
appartenenza. Tornavamo a casa dopo il
viaggio di una settimana compiuto soltanto con l’ausilio delle nostre forze,
avevamo percorso 642 chilometri ed oltre 8500 metri di dislivello,
eravamo
arrivati al mare passando per tre regioni e conosciuto l’Isola del Giglio,
avevamo transitato su alcune delle strade più antiche d’Italia, come la
Salaria, la Flaminia, la Cassia e l’Aurelia, e
conosciuto paesi sperduti
confrontandoci con realtà di altri tempi.
Attraversavamo in bici le terre dell’antica Sabina, trovando realtà diverse dalle nostre, tutto appariva più autentico, come se il tempo si fosse fermato indietro di quarant’anni. Erano poche le speculazioni edilizie e le piccole comunità dei paesi che
incontravamo mostravano ancora un’economia fortemente legata all’agricoltura e all’allevamento. I paesi si raccoglievano sulle cime delle colline, e la loro antica funzione difensiva, perpetrata per secoli, continuava ancora oggi a trasmettere un’idea di
individualità ed appartenenza. Salivamo e scendevamo quelle antiche strade poco trafficate fermandoci ad ogni paese, dove spesso il punto di ristoro era un bar-alimentari situato nella piazza principale. Trovavo una grande familiarità negli
sconosciuti che incontravamo, e la cosa mi piaceva molto perché mi dava la sensazione di trovarmi a casa. Soltanto Rieti usciva fuori da tutto quel contesto, era evidentemente l’agglomerato urbano più grande della zona, dove le strade tornavano ad essere
trafficate e si sentivano le caratteristiche tipiche di una città. Entravamo nella zona del Cicolano, e tutto tornava nuovamente ad essere autentico, un piccolo agriturismo isolato nella natura ci garantiva dove trascorrere la notte.
Tragitto percorso in bici: Foglia (Magliano Sabina) – Torri in Sabina – Cottanello – Fonte Cerro – Valico di Fonte Cerro – Contigliano – Rieti – Grotti – Concerviano.

Attraversavamo le
terre etrusche scoprendo sulla strada principale tantissime deviazioni per le
necropoli e altri luoghi di importanza storica, ma che in bicicletta erano purtroppo
impossibili da visitare. La giornata si riempiva già dei tanti
chilometri obbligati
del nostro viaggio, e poi bisognava sempre riservare del tempo per cercare un
posto dove trascorrere la notte. Percorrevamo un’altra antica via romana, la
Cassia, talmente trafficata e mal messa da essere percepita in bici ancor
peggio dell’Aurelia, decidevamo così di allungare il tragitto e deviare per i
Monti Cimini, alla volta di San Martino in Cimino e il Lago di Vico, seguendo strade
meno trafficate ed immerse nella natura. La fatica compiuta nello svalicare l’orlo
di quell’antico
vulcano estinto veniva ampiamente ripagata dalla bellezza e
dalla quiete del lago. Ci immettevamo nelle terre dell’antica di Sabina, e
trovavamo realtà diverse dalle nostre, di tanto in tanto qualche agriturismo
segnava la strada con la sua indicazione, e
fortunatamente anche quella sera
eravamo riusciti a trovarne uno che potesse ospitarci.
Tragitto percorso in bici: Tuscania - Vetralla - Cura - Via Cassia - San Martino in Cimino - Lago di Vico - Caprarola - Fabrica di Roma - Borghetto - Foglia (Magliano Sabina).
