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La Terratta (2208 m) è una delle cime della Montagna Grande, che col suo filo di cresta segna la linea di confine del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. Quella di oggi era l’ultima escursione
dell’anno organizzata dal CAI dell’Aquila, e ci tenevo molto a partecipare perché mi ero data appuntamento per questo giro con degli amici di Coppo dell’Orso, conosciuti domenica scorsa
al Rifugio Panepucci. È sempre bella l’amicizia che nasce in montagna. Il cielo incupito sopra di noi si rifletteva sulla superficie del lago, alterandone la calma apparente in una visione
più volubile, ma una volta entrati nel bosco le percezioni si rasserenavano al cospetto di una dimensione unica. Il bosco è un archetipo assoluto dell’inconscio, lo sostenevano i Fratelli Grimm:
bisogna sempre attraversarlo per raggiungere un qualcosa (così come nella vita bisogna sempre mettersi alla prova con noi stessi per ottenere quello che desideriamo). Il sentiero si snodava
all’interno di un’enorme gola che saliva lungo tutto il Vallone della Terratta. I colori dell’autunno infuocavano le foglie degli alberi, timbrandoli di arancioni intensi. A volte prendevano il
sopravvento i rossi, inscenando sipari assurdi più vicini ad un’allucinazione che alla realtà. Lo Stazzo della Terratta apriva lo sguardo sulla parete rocciosa della Montagna Grande. Quella
parete si lastricava di strati di roccia, a volte compatta e a volte friabile. La trovavo assolutamente meravigliosa. Da lì non si impiegava molto per arrivare sulla cima. La nebbia, purtroppo, ci
ha precluso ogni percezione di profondità, tanto da concederci solo la visione del mucchio di sassi di vetta. A compensare questa mancanza però c’era la neve. Seppure pochissima, bastava al mio
stato d’animo per rendermi felice. Le differenze di pressione davano corpo ad un vento molto forte, che di certo avrebbe portato via la nebbia, ma faceva troppo freddo per rimanere lassù
ad aspettare. Una volta ridiscesi, alle nostre spalle la cima della Terratta si era completamente scoperta, mostrando tutta la sua sommità. Non importava, sarà per la prossima volta.

Il piccolo borgo di Castrovalva si lega al nome di Maurits Cornelis Escher: nel 1930 l’artista ha realizzato una bellissima litografia che ritrae il paese, probabilmente prendendo il punto di vista dall’ultimo tornante prima dell’accesso al piccolo borgo (sezione di strada successivamente a lui dedicata dalle autorità comunali).
Escher è un genio indiscusso, unisce l’arte con la matematica in una danza folle fatta di poliedri e di frattali, con una padronanza razionale che mette i brividi: solo un genio che è anche altrettanto pazzo può avere una visione così lucida dell’impossibile. Lui non solo è stato in grado di vedere oltre ma anche di ribaltare quella
visione iperuranica giocandoci come più gli piaceva. La genialità è fatta sostanzialmente di follia, ingegno e poesia, evidentemente a lui non mancava nulla di tutto questo. Ero già stata a Castrovalva mesi fa (in occasione della festa dei serpari di Cocullo), ma purtroppo allora non mi ero potuta soffermare molto sul
territorio, finalmente adesso potevo riprendere da dove avevo lasciato. Siamo partiti da Anversa degli Abruzzi, precisamente dalla Sorgente del Cavuto, e da lì abbiamo seguito tutto il percorso che attraversava le Gole del Sagittario, attualmente riconosciute come Riserva Naturale del WWF. La Gola del Sagittario
morfologicamente rappresenta una tipica incisione fluviale, caratterizzata per l’appunto dalla morfologia a V, scavata e modellata nel tempo dall’azione erosiva dell’acqua che, osservando la profondità delle gole (100 metri dalla strada) e le dimensioni dei massi e dei ciottoli abbandonati nel letto fluviale,
deve aver avuto una grande rigogliosità e potenza di trasporto. La sua posizione (tra la Montagna Grande ad Ovest e il Monte Genzana ad Est) è stata vincolata da quella che può essere considerata una linea di debolezza della struttura marsicana, un fronte compressivo legato a complessi movimenti tettonici, sul
quale poi ha agito l’azione erosiva dell’acqua (queste informazioni le ho prese da un cartello del parco). L’acqua scorreva al nostro fianco, insinuandosi tra quello squarcio di montagne riempito da una meravigliosa vegetazione, quasi tutta ingiallita dall’autunno e carica di energia. Che cosa meravigliosa.
Di tanto in tanto scorgevamo in alto la famosa strada curvilinea che si addossava alla montagna, con le sue gallerie scavate a vivo nella roccia. Quel tragitto attraverso le Gole purtroppo non è stato molto lungo, terminava al bivio stradale di Castrovalva. Dopo qualche tornante asfaltato (e un paio di cerbiatti) abbiamo ripreso
il sentiero (segnato come geologico) per salire su questo meraviglioso borgo. L’odore del timo dominava su tutto, e si diffondeva ad ogni nostro passo. Di nuovo qui, ero davvero felice di riprendere da dove avevo lasciato mesi fa. Da Castrovalva abbiamo seguito tutto il filo di cresta della sua montagna, tra
rocce brinate e muschio; un tratto faticoso perché fatto controsole, con la luce che ci limitava di molto la visibilità. Però più salivamo e più riuscivamo a scorgere in lontananza la spolverata di neve su Monte Genzana, così delicata da sembrare quasi zucchero a velo. Questa immagine così dolce mi calmava
molto. Decidiamo di svalicare in un punto dove nei pressi della sella c’era una piccola chiesetta di montagna detta dell’Immacolata. Monte Genzana ci guardava dall’alto, mentre dal basso, sotto di noi, il Lago di Scanno brillava, grazie alle molteplici rifrangenze di luce della sua superficie. Raggiunto il piccolissimo
paesino di Frattura Vecchia, ormai completamente abbandonato, ci siamo immersi in una realtà di altri tempi, fatta di pietre e piante selvatiche. Quei vicoli erano così silenziosi, chissà quale e quanta storia avranno visto. Mi è piaciuto tantissimo. Il nome così particolare lo prende a memoria di una frana che, nella preistoria,
si distaccò da Monte Genzana, sbarrando il Fiume Sagittario e creando così il Lago di Scanno. Ripreso il percorso la nostra tappa conclusiva era la fermata dell’autobus di Villalago: lì sarebbe passato il pulman di linea che da Scanno avrebbe fatto il giro di tutti quei paesini, tra cui anche Anversa degli Abruzzi, dove
avevamo lasciato la macchina. (Siamo arrivati giusto in tempo! La corsa successiva ci sarebbe stata dopo circa 4 ore!). Secondo i dati del GPS abbiamo percorso 14,8 km con un dislivello in salita di 1282 m; il tempo in movimento è stato di 4h35’; la quota minima di 514 m e quella massima di 1438 m.
Antonella Panepucci Alessandri nata a L’Aquila il 12 febbraio 1945 periva il 13 giugno 1976 lungo il canalone Bissolati durante una discesa sciistica del Corno Grande, già da lei compiuta in prima assoluta nel maggio del 1971. Intitolando questo rifugio ad
Antonella Alessandri Panepucci, i soci della Sezione Aquilana del Club Alpino Italiano intendono ricordare in forma duratura una vita che, pur nel brevissimo spazio di un respiro, significò purezza e poesia e riassunse in sé, fino al limite della scomparsa perduta
con la morte, quel meraviglioso, inspiegabile, sublime assurdo che è e rimane l’alpinismo. Antonella vive in ognuno di noi. Rivive, in ogni modo, nelle peonie, nei miosotis, nelle genziane di questi prati: fiore tra i fiori, azzurro con azzurro. Avevo trovato
queste parole di memoria incorniciate in un piccolo quadretto dentro il Rifugio Panepucci. Com’era bella Antonella. Ho visto una sua foto incorniciata affianco a quel quadretto, la ritraeva serena, armoniosa, in sintonia con tutto quello che la circondava. Bella. È
morta a 31 anni, quando aveva la mia età. Immagino che non sia stato un caso che abbiano voluto legarne la memoria a questo rifugio: qui siamo poco sopra la Valle del Paradiso. Le peonie della Valle del Paradiso sono le più belle che io abbia mai incontrato,
sul finire della primavera il loro colore s’infuoca di un’energia così intensa e calda che pare vibrare, fino quasi a farsi percepire. D’estate la terra si carica di un calore dolce che rilascia poi mano mano nell’autunno, canto di nostalgia delle anime sensibili, ultima
melodia prima dell’inverno, quando ogni cosa si riveste di bianco e silenzio, rumore sottile di un minuscolo fiocco di neve che cade. La Valle del Paradiso innevata è bellissima, è così rigorosa e solenne che solo ad immaginarla vestita di bianco comincio già a
perdermi dentro di lei. Come mi sento piccola di fronte a tutto questo. No, non è stato un caso che abbiano scelto proprio questo rifugio da dedicare ad Antonella. Qui non c’è solo la bellezza della natura, c’è qualcosa di più, e questo qualcosa potrebbe essere lei.
Finalmente, dopo anni, sono tornata a visitare Castello Camponeschi, un borgo fortificato di grande bellezza che con la sua collocazione collinare si equidistanzia dalle due vie principali che portano da un lato verso l’altopiano di Navelli, e dall’altro nella Valle dell’Aterno. Davvero una posizione centrale, strategica
e preziosa. Alessandro Clementi, storico di grandissima importanza e profondo conoscitore del territorio abruzzese, ha delineato in breve alcuni accenni storici (che riporto fedelmente di seguito), ripresi da una tabella informativa della Comunità Montana. Castel Camponeschi o più propriamente Castello di
Prata, in quanto solo nel sec. XV la famiglia Camponeschi ne ebbe la giurisdizione feudale, nasce in seguito alla distruzione della città romana di Peltuino, fondata come città fiscale durante il fiorire del fenomeno della transumanza di cui segue il destino. Cessata la funzione fiscale per cui nasce, la città muore e solo in
forza del fenomeno dell’incastellamento vedremo sorgere i numerosi borghi fortificati che punteggiano l’altopiano. Tali borghi sono frutto della grande paura e della necessità di seguire la logica degli insediamenti di altura più facilmente difendibili. Tra i tanti castelli il più conservato è appunto il Castel
Camponeschi ovvero Castello di Prata. La sua attuale fisionomia viene tuttavia importata in epoca normanna quando si doveva rispondere a due esigenze di fondo: la fortificazione che dà sicurezza, anche psicologica, e la necessità di gestire un territorio che abbia sicuri riferimenti demici. Cessate le ragioni che
spingono a incastellare, il borgo tende a slittare verso la pianura, appunto le prata donde Prata d’Ansidonia. La sua struttura, a differenza di altri borghi dell’altopiano è caratterizzata da una cerchia di mura che in gran parte non coincide con i muri esterni delle case, rimanendo esse staccate dalle mura stesse. Esempio
illustre di questa modalità di incastellare fu nel sec. XIII Monteriggioni di Siena. (Prof. Alessandro Clementi). Questo luogo meraviglioso è stato purtroppo depredato nel corso degli anni e attualmente vive uno stato di abbandono. Per visitarlo ho consegnato una richiesta scritta al sindaco, e fortuna ha voluto
che l’impiegato comunale che mi ha accompagnato fosse proprio nativo del castello, una delle ultime persone che con la sua famiglia ha vissuto lì, figlio di secolari generazioni locali. Mano mano che percorrevamo quelle vie lastricate di pietra leggevo nei suoi occhi una sorta di commozione: la memoria della sua infanzia
riaffiorava ad ogni nostro passo, rievocata, fino ad arrivare ad un culmine sensibile in cui ha cominciato a raccontarmi dei suoi ricordi vissuti da bambino, di quelle fredde sere invernali in cui sopraggiungevano i lupi e di quelle nevicate così abbondanti da interrompere tutte le comunicazioni con il paese. Mi faceva
vedere quale fosse la sua casa e quella di sua nonna, che indispettiva sempre con gli scherzi, il posto dove giocava e dove suo padre coltivasse l’orto. Non posso che essere molto grata a quest’uomo, perché mi ha fatto percepire quel luogo con il suo punto di vista, e non può esserci approccio più bello di quello di
colui che ama. Lasciato il Castello io e i miei amici ci siamo recati nel paese di Prata d’Ansidonia dove si trova una bellissima osteria, il Borgo dei Fumari, un vero e proprio ristorante-museo, di cui ho sempre sentito parlare molto bene, e non poteva esserci occasione migliore di questa per andarci. (La locanda ha un sito
web, QUI il collegamento). Non solo il posto è bellissimo e curato con amore in ogni dettaglio, ma si mangia anche molto bene. Ogni stanza è dotata di un fumaro (camino) e di una propria identità sottolineata dall’attribuzione di un nome: c’è quella delle rondini, quella delle stelle, quella del castello (dove abbiamo mangiato noi)
e tante altre, curate ognuna in ogni minimo particolare che sa di Abruzzo e di tradizione. Alla fine del pranzo, mentre ci complimentavamo di tutto con lo chef-proprietario, quest’ultimo ci ha suggerito di proseguire la nostra visita nel paese, indirizzandoci soprattutto nella chiesa di San Nicola, dove al suo
interno è custodito un Pulpito riconosciuto il più bello d’Abruzzo. Riporto di seguito un testo scritto dal Sac. Domenico Marcocci, che traccia alcune informazioni riguardo questo gioiello scultoreo. L’ambone del XIII secolo non fu costruito per questa chiesa, ma per la vicina chiesa rurale di San Paolo che all’epoca
era certo il monumento più degno per accogliere questo gioiello. Fu trasportato in questa chiesa nel 1796 ed è ben conservato. Sul lato sinistro, sopra alle figure di San Paolo tra i Santi Tito e Apollo, la data e il committente: “Anno del Signore 1240. Questa opera che decora la tua Chiesa, o Beato Papa, degnati di
accettarla dal clero che ti onora. La fece scolpire il Prevosto servo di Cristo Tommaso. Costoro e coloro che dettero la loro opera rendi beati, o Cristo”. È classificato come il pulpito più bello d’Abruzzo per alcune caratteristiche esclusive, l’eleganza ornamentale, novità stilistiche, finezza e sicurezza di lavorazione.
C’è anche chi afferma che, per il suo genere decorativo e stilistico, la sua importanza va ben oltre i confini regionali. I temi ornamentali principali sono foglie di cardo e fiori tipici dell’Abruzzo. Originalissima è la statuina femminile al centro del lettorino semicilindrico. Il suo abbigliamento e la posa semplice
ed armoniosa sono caratteristiche delle donne abruzzesi dei tempi passati quando portavano sulla testa la caratteristica “conca” piena d’acqua. Le parole “in principio” incise nel libro sulla testa della statuina, sono le parole iniziali della Bibbia e nel Vangelo di San Giovanni. L’aquila che tiene il libro con gli artigli
è un’immagine frequente nella simbologia cristiana. Sotto le arcatelle di destra e sinistra del lettorino i simboli eucaristici dell’uva e del frumento. L’autore è sconosciuto, ma dallo stile dovrebbe essere un artista del centro-sud d’Italia.