skip to main |
skip to sidebar
Il Gran Sasso saliva con la sua mole maestosa, si addolciva con le varie tracce del sentiero: con curve marcate e regolari si disegnava da solo in morbidi sinusoidali. I caldi raggi del sole si
esaltavano del riverbero della pietra, la Natura viveva equilibri statici e sensibili, che accompagnati dal calore indicavano una particolare metafisica. Pareva come se la nostalgia avesse una
temperatura, ma forse queste sono solo associazioni mentali. Tornavano i ricordi e tornavano le Malecoste, che, così belle e affilate sul percorso di cresta, conducevano alla Cima del Papa.
L’ingresso dell’estate bruciava d’oro l’erba e la terra, la alleggeriva nella materia e la sublimava come non mai, finalmente potevo di nuovo ammirare i ghiaioni e gli sfasciumi che come
vestiti fasciavano i fianchi delle montagne. Respiravo quanto più mi potesse appartenere, finalmente. Quel balcone girava intorno prospettive familiari, l’amavo come sempre, ma forse adesso
ancora di più perché l’avevo riconosciuto, perché mi aveva aspettato.
Il vento soffiava sopra ogni cosa, coprendo e scoprendo le parti sommitali delle montagne. I sentimenti erano volubili così come erano impetuosi gli spostamenti d’aria. Ogni cosa si animava di
contrasti, ma sapevo bene che potevo andare. Ci sono dei vortici che a volte appesantiscono l’anima fino a farla sprofondare, ma come possiamo essere così piccoli da soffermarci sul limite della
nostra vita? Mi guardavo intorno e mi davo da sola delle risposte: tutta la Natura che avevo intorno era così IMMENSA che qualsiasi potesse essere la mia preoccupazione diventava inesistente.
Forse capivo qualcosa, o meglio, rammentavo quale fosse il senso, alla ricerca del filo che manteneva il mio equilibrio. Monte San Franco si puliva dalle nuvole e guardava ovunque intorno,
correva con lo sguardo in lontananza e se ne infischiava di qualsiasi stupida preoccupazione. Non esistono certezze oltre alle montagne, la meraviglia del tutto forse sta proprio in questo.
Cresciamo e assecondiamo quello che ci circonda, addomesticandoci alla vita che abbiamo vicino, spesso – purtroppo – dimenticando di quanto sia meravigliosa e stupenda
la nostra vita, dell’immensa fortuna che abbiamo a viverla, di tutte le cose che possiamo vedere, fare, di tutto quello che possiamo provare. Quella montagna mi rasserenava, ero felice di sentire la sua dolcezza materna così portatrice di risposte.

Da tempo le intuizioni correvano lungo i profili più morbidi del Gran Sasso. Sentivo il richiamo dei pendii erbosi e aperti, lontani da chiunque avesse potuto disturbare. Cercavo la quiete agli
sgoccioli di primavera, dove il sole baciava la terra e l’erba cominciava a bruciarsi. La strada del Vasto scopriva le montagne basse, quelle in cui la calma apparente disegnava ore e ore di
metafisica. Le mucche e i cavalli riposavano al sole componendo parte di quella visione perfetta. Niente, assolutamente niente avrebbe potuto infastidirmi. Venivo invasa di nuovo da
quell’amore profondo e radicato per la mia terra, per le mie montagne, era tanto tempo che non salivo sulla catena Gran Sasso, come era possibile che fosse passato tutto questo tempo?
Sembrava come se una nostalgia dolce mi riportasse indietro, nella memoria di un tenero incontro tra amanti. Quei sassi erano tutto per me, la loro essenza si ramificava nella mia anima in
maniera così viscerale da farmi comprendere che in fondo eravamo fatti della stessa materia, perché noi siamo la nostra terra: è un legame profondo di appartenenza materna, di sentimenti complementari e di incastri perfetti.
Santo Spirito a Majella è senza dubbio uno dei complessi monastici più famosi e più grandi della Majella oltre che il più ricco di storia e di tradizioni. Ha subito molte trasformazioni nel corso degli ultimi mille anni, ma conserva ancora tutto il suo fascino dovuto alla sua stupenda posizione nella valle a cui ha dato il nome, nonché all’atmosfera di mistero che ivi regna nel
dedalo di scale e negli orti abbandonati. Come per tanti eremi della Majella non esiste una data precisa della sua origine, anche se si può supporre che sia anteriore al Mille. La prima presenza famosa a noi nota è quella di Desiderio, il futuro papa Vittore III, che nel 1053 vi dimorò con alcuni eremiti costruendovi una chiesetta. Nel secolo successivo l’eremo ebbe probabilmente un
periodo di abbandono viste le condizioni in cui Pietro da Morrone lo trovò intorno alla metà del tredicesimo secolo. Dal 1310 al 1317 fu priore in S. Spirito il Beato Roberto da Salle e nel 1347 vi dimorò per alcuni mesi Cola di Rienzo. Nei due secoli successivi vi fu un lento declino e solo con l’arrivo del monaco Pietro Santucci di Manfredonia, nel 1586, la vita religiosa vi
riprese vigore. Questi riuscì in alcuni anni a rimettere in piedi il complesso costruendo, fra l’altro, la scala santa che porta all’oratorio di S. M. Maddalena. Fra alti e bassi si giunge al 1807, anno della soppressione di alcune comunità monastiche. La badia fu nuovamente abbandonata; nel corso dell’Ottocento si tentò più volte di rimetterla in piedi, ma sempre con scarsi
risultati. La parte bassa del grande complesso monastico è costituita da tre settori ben definiti. La prima parte comprende la chiesa, la sagrestia e un’ala abitativa distribuita su due piani. Di seguito a questa troviamo i servizi del vecchio convento, formato da sei grossi locali di cui rimangono solamente le mura di base. I primi due settori si appoggiano alla parete rocciosa
creando un lungo corridoio che conduce alla Foresteria o Casa del Principe. Dalla Foresteria inizia la “Scala Santa” che in due lunghe rampe porta all’oratorio della Maddalena e a due grandi balconate rocciose. Dall’oratorio un sentierino scavato a tratti nella roccia scende nell’ampio piazzale antistante la chiesa. Al di sotto della chiesa, sul lato a valle, si apre l’ingresso dell’Eremo,
interamente ricavato nella roccia. Intorno a questo nucleo originario si è poi sviluppato il monastero. Moltissime sono le leggende legate a questo luogo di culto e in particolare a Pietro da Morrone. Storie di diavoli, di profanazioni sacrileghe ed esemplari punizioni, tutte imperniate intorno alla figura del Santo eremita. Un tempo numerose compagnie di pellegrini
giungevano alla Badia risalendo la valle o valicando la montagna; oggi solo in occasione dell’apertura della “Perdonanza”, il 29 agosto, possiamo notare una discreta partecipazione dei devoti. (Testo tratto da un cartello informativo del luogo realizzato dall’ARCHEOCLUB – PESCARA, COOP. MAJAMBIENTE).
L’Eremo di San Bartolomeo in Legio non si soffermava a comporsi solo del Sacro: la dimora dei Santi e dei fedeli si tesseva di una storia ancora più antecedente a quella condizione, come se il passaggio stesso dell’uomo avesse generato un’antica energia ancestrale, un polo di attrazione avvertito soprattutto dalle anime sensibili. Una scala di pietra anonima conduceva di sotto, a
ridosso di una maestosa balconata di roccia, lì vi era il Riparo Ermanno de Pompeis, un sito archeologico dove si attestavano le prime tracce della presenza umana in Abruzzo. Quella pietra così levigata era tanto cara ai Santi che agli antenati, e a pensarla nella sua interezza se ne sentiva la voce, soffusa e diffusa tra il rumore dello scorrere dell’acqua sotto di noi. Lungo le pareti rocciose dei
profondi valloni che solcano il massiccio della Majella e del Morrone si aprono ampi ripari sotto roccia dove sono stati rinvenuti numerosi disegni rupestri del tipo a carboncino e in ocra rossa. In queste località è attestata una presenza dell’uomo antichissima che si è protratta fino ai giorni nostri con una continuità sorprendente. A partire dal Paleolitico inferiore
(700000 anni fa in Abruzzo), i primi uomini che hanno colonizzato la nostra regione sono periodicamente saliti in queste valli, prima per cacciare gli erbivori che si spostavano in quota alla ricerca dei pascoli estivi, poi per condurvi, come pastori, le mandrie che erano riusciti ad allevare. La continuità della frequentazione ha portato ad uno stratificarsi, nei
medesimi luoghi ritenuti sacri, di manifestazioni artistiche a carattere religioso. Anche a San Bartolomeo, come in altre località, l’eremo si sovrappone e sfrutta questi ripari sotto roccia una volta abitati dai cacciatori nomadi dell’antica età della pietra e poi divenuti ricoveri per i pastori transumanti delle età dei metalli. I disegni rupestri di queste zone, che testimoniano
del passaggio di tali popolazioni, hanno inoltre quasi sempre un carattere sacro, frutto di cerimonie propiziatorie o sepolcrali, e sono con ogni probabilità variamente attribuibili a uomini dell’età del bronzo e del ferro, mentre le pitture in ocra rossa potrebbero risalire al Neolitico (6500 anni fa). Ancora oggi possiamo notare in quasi tutti gli eremi di queste montagne
come i culti preistorici legati alla roccia ed all’acqua si siano tutt’ora inconsciamente tramandati nei gesti dei fedeli, che praticano lo strofinio rituale per guarire dai dolori e riportano a casa l’acqua di stillicidio che si raccoglie nelle vaschette scavate nel pavimento roccioso del riparo. (Tratto da un cartello informativo dell’ARCHEOCLUB – PESCARA, COOP.
MAJAMBIENTE). Le caratteristiche ambientali della zona hanno reso questo riparo particolarmente privilegiato per un uso a fini abitativi da parte delle antiche popolazioni paleolitiche di cacciatori-raccoglitori. La sua posizione soleggiata, in fondo ad un vallone al riparo dalla pioggia e dal vento, la reperibilità di acqua potabile nelle immediate adiacenze, la vicinanza dei
territori di caccia estivi in quota, già frequentati in precedenza dagli uomini del Paleolitico medio e inferiore, insieme all’abbondante disponibilità di selce della stessa roccia che costituisce il riparo, lo rendevano idoneo come ricovero temporaneo per la caccia nomade e luogo ideale per la produzione di strumenti litici. I primi gruppi umani che
frequentavano il riparo, circa 14000 anni fa, appartengono con ogni probabilità alla cultura del Paleolitico superiore abruzzese nota come Bertoniano, localizzata principalmente nell’area del bacino del Fucino (Avezzano-Aq). Queste genti si spostavano nel periodo estivo sulle montagne, seguendo le mandrie di erbivori nelle loro migrazioni stagionali alla ricerca di pascoli. Il
contenuto faunistico dei depositi stratigrafici conferma un utilizzo del ricovero anche per la macellazione della selvaggina, fra cui segnaliamo in particolare resti di cervo e di capriolo, specie tipiche di un ambiente boschivo con ampie zone aperte al pascolo. Gli oltre 16000 manufatti in pietra non ritoccati, rinvenuti su una superficie estremamente limitata come quella
del riparo, insieme all’enorme numero di schegge e resti di lavorazione talvolta coincidenti con i nuclei originari, fanno comunque pensare ad un utilizzo prevalente del sito come cava per l’estrazione della selce ed officina litica per la prima scheggiatura del materiale. (Tratto da un cartello informativo dell’ARCHEOCLUB – PESCARA, COOP. MAJAMBIENTE).
La terra madre raccoglieva l’acqua attraverso scivoli e sorgenti, l’incanalava, la accompagnava, se la faceva scorrere addosso fino a farsi logorare. Il Vallone di San Bartolomeo era scolpito da tutta quella leggerezza, i suoi solchi erano come delle vene entro cui scorreva la vita, dove ogni cosa si levigava alla ricerca della
perfezione. La roccia, così dura, diveniva morbida allo sguardo, accompagnandosi alla tregua di vasche cristalline, dimora straordinaria di tritoni e raganelle. Dall’alto, l’Eremo di San Bartolomeo osservava ogni cosa, con la sua pietra liscia così
ermetica e profonda che tratteneva i sogni e le scritte dei fedeli, i segni di un passaggio o di una vocazione. La terra richiamava tutto sull’importanza dell’essenza, lì non c’era niente eppure si conteneva tutto. Come molti altri eremi della Majella, San
Bartolomeo fu ricostruito nel XIII secolo per opera di Pietro da Morrone. Non ne conosciamo con precisione la data di origine ma possiamo supporre, come per S. Spirito a cui lo lega anche la vicinanza, che sia anteriore al Mille. Con molta probabilità
Pietro da Morrone ricostruì l’Eremo dopo il 1250, visto che si tratta del primo ritiro da lui frequentato dopo Santo Spirito. Sappiamo, seppure non con certezza, che il futuro Celestino V con alcuni compagni vi si stabilì intorno al 1274 per restarvi più
o meno stabilmente fino al 1276. Per l’estrema vicinanza ai centri abitati e per l’eccessivo disturbo causategli dalle frequenti visite dei pellegrini, egli preferì, negli anni successivi, trasferirsi in San Giovanni d’Orfento. L’Eremo posto a circa 600 metri di quota nel
vallone di Santo Spirito, si sviluppa sotto un enorme tetto di roccia, lungo circa 50 metri, bucato nella parte iniziale per permettere la discesa nel sottostante terrazzo. La balconata rocciosa è chiusa all’estremità opposta dal muro della chiesa che
presenta al di sopra dell’ingresso degli affreschi, piuttosto malridotti dal tempo e dall’ignoranza, che risalgono al tempo della ricostruzione di Pietro da Morrone. Il piccolo ambiente prende luce da una porta-finestra; di fronte, sotto una pietra
squadrata, c’è una risorgenza d’acqua che si raccoglie in una vaschetta ricavata sul pavimento. Una porticina di lato all’altare conduce in due piccoli ambienti che ricostituiscono la parte abitativa dell’Eremo. Qui la balconata termina ed una
lunga scala scavata nella roccia porta nel vallone. Al centro della balconata si trovano altre due scalinate: quella a destra, la “Scala Santa”, viene percorsa solamente in salita, generalmente in ginocchio o pregando. Nel sottostante vallone
troviamo un ponte naturale e una piccola sorgente, entrambi legati alle leggende e alle tradizioni locali. L’Eremo è ancora oggi molto frequentato, in particolar modo in occasione della processione del 25 agosto. Una moltitudine di pellegrini vi
giunge al mattino presto e, dopo la Messa ed una veloce colazione consumata giù alla sorgente nel vallone, in processione porta il Santo in paese. I fedeli ripercorrono antichi sentieri dandosi il cambio per portare la leggera statua del
Santo, uno alla volta, in braccio come fosse un bambino. La statua in legno, bella nella sua raffigurazione paesana, ha la pelle sulla spalla sinistra ed un coltello nella mano destra. Tale iconografia si rifà alla tradizione che vuole San Bartolomeo
martire in oriente, scorticato vivo. I fedeli riportano a casa l’acqua santa, raccolta sotto il masso all’interno della chiesa, e la distribuiscono ai parenti o la mandano all’estero ai familiari emigrati. L’acqua santa si presta a tutto: è l’ultima speranza per i
moribondi, è miracolosa per le malattie dei neonati, cura piaghe e ferite. Anticamente era considerata l’unico rimedio contro la peronospora della vite. (Tratto da Eremi d’Abruzzo – Guida ai luoghi di culto rupestri – CARSA Edizioni).