“I Monti d’Oro” è il titolo della mia mostra personale che ho esposto all’interno del castello di Rocca Calascio. Ho sempre rifiutato di dipingere le montagne, perché la pittura prende l’anima delle cose, ed io non potevo prendere l’anima della Montagna: anche il solo tentativo mi suonava come un atto dimancanza di rispetto. La Natura è così perfetta che bisogna ammirarla senza filtri, bisogna salirci sulle sue cime per fruirne la bellezza (a 360 gradi e con tutti gli organi sensoriali), è una cosa che non si può raccontare, che non si può percepire trasversalmente tramite altri, ma che deve avvenire per forza conuna presa diretta, esattamente come è diretto il nostro rapporto con Dio. Siamo solo noi e il mondo, il resto sono solo secondari punti di vista. Quando mi è stata data la possibilità di poter utilizzare come sala espositiva il castello di Rocca Calascio ho pensato però che non potevo non parlare della Montagna, tantoeccezionale era quel contesto. L’importanza di quel castello era così grande che già di suo componeva parte dell’opera che vi sarebbe stata esposta, io dovevo solo completare a modo mio quello spazio, ed è per questo che ho pensato all’oro zecchino, il più puro che potessi trovare. L’oro era il significato e il simbolodella ricchezza delle montagne d’Abruzzo, che dalle pecore allo zafferano mi avevano dato lo spunto ad adottare questo titolo, ripreso da un libro molto interessante scritto dalla Dott.ssa Maria Rita Berardi, e che si intitola appunto “I monti d’oro. Identità urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale”.Le cime delle montagne sono dei luoghi sacri, sono le estensioni fisiche più estreme, dove è la terra a voler toccare il cielo e non viceversa. È questo il luogo dove accadono i miracoli, dove le preghiere arrivano prima al divino, perché hanno meno tragitto da compiere. È qui che si viene ascoltati meglio dall’Universo, èqui che bisogna chiedere o rinnegare, è qui che si riesce meglio a prendere coscienza di sé. Qui si centra il proprio asse di equilibrio con la linea di testa delle montagne, e non è una cosa da poco. Dagli altipiani ai contrafforti tutto si innalza in una vorticosa danza verticale che dal basso della terra raccoglie tutto e sale, allaricerca della redenzione. Tutto è oro, tutto è ricchezza, non esiste tesoro più grande del punto di vista perfetto che rivolto verso il mondo fa prima da specchio a noi stessi. La nostra anima è lì, sulle vie dell’oro, dove ogni angolo è anticamera di Paradiso. Il Gran Sasso non è solo un massiccio montuoso, è un carattere, è unatempra, è la distinzione perfetta delle genti d’Abruzzo. QUI c'è il link per la pagina del mio sito web che tratta nello specifico la mostra.
sabato 23 aprile 2011
giovedì 21 aprile 2011
Il Castello di Rocca Calascio
Il castello di Rocca Calascio è un luogo di grandissima bellezza, le sue forme così lineari si accostano perfettamente a quell’ideale unico e perfetto di castello che spesso ritorna nei sogni e nelle favole, nella fantasia dei bambini e nelle suggestioni dei grandi. Ammirare quelle forme permette didare corpo tangibile alla fantasia, come se la dimensione onirica di colpo diventasse concreta, aprendo il varco della porta dei sogni. Da lassù tutto gira, percorrendo profili sconfinati di montagne, scansioni interminabili di nuvole, e fughe prospettiche dove sono proprio i nostri sogni a correre.Il Gran Sasso, il Sirente, la Majella, da quel punto di vista diventano fratelli, trovando la loro unione sulla linea di orizzonte comune. Un sito molto interessante (www.icastelli.it) fornisce alcune informazioni sul castello di Rocca Calascio che riporto di seguito a citazione: Il fortilizio diRocca Calascio, situato a 1460 metri d'altezza, è tra le fortificazioni più alte d'Italia e domina da tale altura la valle del Tirino e della piana di Navelli. Il suo impianto è di uso esclusivamente militare e si caratterizza per la capacità con laquale riesce a fondersi con l'impervio territorio circostante, dal quale non risulta affatto condizionato; è evidente come la sua sia una posizione assolutamente favorevole dal punto di vista difensivo. La struttura, in pietra bianchissima, ha una pianta quadrata: presenta agli angoli quattro torri cilindricheconsiderevolmente scarpate e un mastio quadrato al centro, il quale costituisce il più interno corpo militare di difesa del castello. Alla rocca si accedeva mediante un ingresso posto sul lato est, a circa 5 metri di altezza, raggiungibile dalla corte esterna sottostante mediante una scala lignea retrattile cheveniva poggiata su due mensole in pietra tuttora visibili al di sotto della soglia di ingresso. Efficacissimo punto di osservazione militare, permetteva di comunicare con gli altri castelli, fino alla costa adriatica, mediante l'ausilio di torce durante la notte e di specchi nelle ore diurne. Ai piedi della rocca sono presenti anchei ruderi dell'antico borgo, al quale essa è collegata con un ponte di legno. Nel 1703 un disastroso terremoto ha danneggiato sia la rocca che il borgo. Restauri conservativi ed integrativi sono stati compiuti tra il 1986 ed il 1989; essi hanno contrastato il degrado strutturale favorendo il recupero architettonico e funzionaledell'intero fabbricato ed in particolare della torre centrale quadrata. Gli interventi di risanamento hanno permesso all'intera area di essere oggi discretamente conservata e visitabile. Rocca Calascio è anche famosa per aver ospitato, in più occasioni, grandi set cinematografici, tra cui i films "LadyHawke" , "Il Viaggio della Sposa", "Padre Pio", "Il Nome della Rosa", "L'orizzonte degli eventi". Per la bellezza di questi luoghi, l'industria cinematografica ha nominato tutta la zona da Rocca Calascio a Santo Stefano di Sessanio, "set per eccellenza". La visita al castello è inserita negli itinerari nel Parco Nazionale delGran Sasso-Laga. (Dott. Andrea Orlando). Sempre sullo stesso sito ho trovato altre informazioni interessanti che trattano nello specifico la sua storia: La prima citazione di Rocca Calascio si ha in un documento del 1380, dove viene descritta come torre di avvistamento isolata, la cui originaria costruzione è dacollocarsi però intorno all'anno 1000. Ad Antonio Piccolomini si deve attribuire, verso il 1480, la realizzazione delle 4 torri attorno all'originario torrione di Rocca Calascio, il muro di cinta attorno al paese e la ricostruzione di gran parte dell'abitato distrutto dal furioso terremoto del 1461. Nelle vicinanze dellaRocca si trova la Chiesa di Santa Maria della Pietà, costruita dai pastori intorno al 1400 per ringraziamento alla Madonna in quanto i soldati dei Piccolomini respinsero, in una sanguinosa battaglia, un gruppo di briganti provenienti dal confinante Stato Pontificio. Punto di osservazione di elevata strategia militare,era in grado di comunicare, mediante l'ausilio di torce durante la notte e di specchi nelle ore diurne con innumerevoli collegamenti ottici disseminati nel territorio, fino ad arrivare ai castelli della costa adriatica. Con la dominazione aragonese fu istituita la "Dogana della mena delle pecore in Puglia" e la pastoriziatransumante divenne la principale fonte di reddito del Regno. Fu quindi un momento di notevole sviluppo per i paesi della Baronia che nel 1470 possedevano oltre 90.000 pecore e fornivano ingenti quantitativi di pregiata "lana carapellese" a citta' come l'Aquila e Firenze. Nel 1579 Costanza Piccolomini, l'ultima dellafamiglia, vendette la Baronia, il Marchesato di Capestrano e le terre di Ofena e Castel del Monte a Francesco Maria De' Medici, Granduca di Toscana per 106.000 ducati. Nel 1743 la zona passò sotto la dominazione Borbonica. Nel 1703 intanto un disastroso terremoto aveva demolito il castello ed il ed il paese di RoccaCalascio: furono ricostuite solo le case nella parte bassa dell'abitato e molti abitanti preferirono trasferirsi nella sottostante Calascio. Una progressiva discesa ha ridotto la popolazione da circa 800 abitanti nel 1600 a zero nel 1957. Calascio, a sua volta, ha iniziato il suo declino a fine '800,subendo gli effetti di una massiccia emigrazione nei primi decenni del '900. Una popolazione di circa 1900 abitanti nel 1860, ammontata nel 1982 a soli 299. Gia' avviato verso il lento disfacimento che caratterizza i paesi spopolati, Calascio ha arrestato ed invertito questa tendenza per mezzo di numerosi interventi di risanamento spesso da parte di cittadini non residenti. Interessato da un complesso progetto di recupero, anche il borgo di Rocca Calascio sta cambiando la sua fisionomia. Un intervento necessario per un insediamento particolarmente suggestivo ed ad un castello che, oltre a suscitare interesse negli studiosi del settore, e' ritenuto il più' elevato della catena appenninica e forse dell'intera penisola. (tratto da www.icastelli.it). Avere la possibilità di esporre all’interno del castello di Rocca Calascio è per me un’esperienza unica, un’emozione molto grande che mi porterà a vivere intensamente quel luogo. Sulla linea dei Monti d’Oro non poteva esserci cornice più bella, e io sono davvero felice di avere questa opportunità.
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domenica 17 aprile 2011
Todi e la Foresta Fossile di Dunarobba
La primavera esplodeva lungo il nostro passaggio di stradine secondarie, tutte serpeggianti in una sinuosa danza di curve e colori bellissimi. La moto si accostava a quegli spostamenti di equilibrio, che prima da un lato e poi dall’altro, rendevanopiacevole il nostro percorso tra l’Abruzzo, il Lazio e l’Umbria. Volevamo visitare la Foresta Fossile di Dunarobba, un sito di grandissimo interesse e di notevole rarità, forse uno dei più importanti di tutta Italia, dove la storia si tratteneva compostasotto pesanti strati di argilla, rivelandosi alla luce nella sua sacralità. Vivevamo un insolito confronto con qualcosa appartenente ormai ad un’altra dimensione, comprensibile solo con l’immaginazione e le informazioni della guida. Chiudevamo gliocchi e immaginavamo le sequoie e il mare, un antico e selvaggio mondo perduto che attraverso i tronchi pietrificati diventava una tangibile testimonianza preistorica. (Purtroppo non posso pubblicare le foto della foresta perché la Soprintendenza per iBeni Archeologici dell’Umbria ha imposto un vincolo, ma sono in attesa dell’autorizzazione). Un opuscolo informativo del centro visite forniva alcune informazioni a riguardo che riporto di seguito a citazione: La Foresta Fossile di Dunarobba venne allaluce verso la fine degli anni ’70, all’interno di una cava di argilla destinata alla fabbricazione di mattoni per l’edilizia. I resti di circa cinquanta tronchi di gigantesche conifere attualmente visibili costituiscono un’eccezionale e rara testimonianza di alcune essenze vegetali appartenenti alla famiglia delle Taxodiacee, che caratterizzano questo settore della penisola italiana contraddistinto da un clima sensibilmente più caldo e umido dell’attuale. Ancora in gran parte sepolta dal sedimento, questa antica foresta, databile a 2 milioni di anni fa nel periodo geologico noto come Pliocene, indica condizioni ambientali sostanzialmente diverse da quelle attuali. La conservazione dei tronchi in posizione di vita e il mantenimento pressoché totale delle caratteristiche del legno originario, sono ragionevolmente ascrivibili ad un seppellimento continuo e graduale avvenuto all’interno di un’area paludosa situata sulle rive di un ampio specchio d’acqua, considerato parte integrante del ramo sud-occidentale del “Bacino Tiberino”. Quest’ultimo, di origine tettonica, si estendeva dall’attuale Alta Valtiberina Toscana sino a Perugia per poi diramarsi in due ampie depressioni che raggiungevano Terni (ramo occidentale) e Spoleto (ramo orientale). Le particolari caratteristiche di questo sito paleontologico lo rendono un monumento naturalistico unico al mondo e di grande rilevanza scientifica. La Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’Umbria, negli anni successivi alla scoperta, ha iniziato un lungo lavoro di documentazione finalizzato allo studio, alla salvaguardia e conservazione del sito paleontologico. Attualmente i maggiori sforzi sono finalizzati a contrastare il disfacimento del legno da parte degli agenti atmosferici, causa principale di degrado. (Per informazioni e prenotazioni: Centro di Paleontologia Vegetale della Foresta Fossile di Dunarobba tel 0744/940348 LINK). Fuori dal sitoarcheologico il percorso si rinverdiva del profumo dei caprifogli, sottolineando la primavera in tutta la sua bellezza. Le colline umbre si componevano morbide sotto il nostro sguardo, scivolando a vista d’occhio lungo piacevolissime prospettive.Todi era poco distante, volevamo immergerci nella sue strade uniche, percorrerne il centro storico per ammirarne il passato e risanare un po’ di nostalgia per la nostra amata L’Aquila. Le vie erano percorribili solo a piedi, permettendo così il massimogodimento dei suoi prestigiosi edifici sacri e medievali. Quanta ricca, meravigliosa, sublime bellezza veste la nostra incantevole Italia.
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venerdì 15 aprile 2011
Kurt Diemberger a L'Aquila
"Devi essere forte e devi essere ben armato, e devi anche sapere regolare il tuo destino... (…) Quando noi saliamo sull’Everest – come qui – di questo non sappiamo, però qualcosa c’è che ci fa rischiare la vita e andare lassù, qualcosa c’è, qualcosa di inspiegabile che sta dietro alla montagna che noi vediamo …quando sopra di noi c’è la cima dell’Everest come qui ti prende qualcosa, non so, Spiriti di Montagna o no non lo so cosa sarà ma qualcosa che vi fa andare su. E se veramente sei in cima e hai la grande fortuna di vedere tutto il mondo in giro ai tuoi piedi allora ringrazia Dio, ringrazia il Destino, ringrazia anche tutti gli Spiriti della Montagna". Kurt Diemberger
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domenica 10 aprile 2011
Pietransieri e la memoria del 21 novembre 1943
Di ritorno dalle Mainarde e da Cerro al Volturno, la nostra direzione ora era quella di Pietransieri. Volevamo rendere omaggio alla memoria di quel piccolo paese, perché ci sono delle cose che proprio non si possono dimenticare. Qui sono statescritte alcune tra le pagine di storia più atroci e sanguinose dell’intero Abruzzo, incomprensibili e terribili, maledette come è maledetta la guerra. Il 21 novembre 1943 i Paracadutisti tedeschi del III Battaglione, 1° Reggimento, della 1^ Divisione Heidrich,compirono una delle più atroci stragi avvenute in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, uccidendo tutti gli abitanti di Pietransieri, ridotti ormai alle sole presenze inermi di donne, vecchi e bambini, alcuni addirittura neonati. Di quel terribileeccidio si salvò miracolosamente solo una bambina di sette anni, Virginia Macerelli. Dopo quel silenzio di morte venne giù la neve, che con il suo candore ricoprì tutti i corpi dilaniati, quasi come se la Natura stessa, inorridita dall’essere umano, volesse renderesubito pace a quello strazio con una degna sepoltura. La testimonianza di Virginia Macerelli è stata raccolta nel libro “E si divisero il pane che non c’era”, la riporto di seguito a citazione, perché queste sono cose che non si possono dimenticare.
«A novembre, cominciarono a venire i tedeschi. Dicevano che dovevamo scappare perché il paese doveva essere distrutto. Si sono presi tutti gli uomini per la guerra, anche mio padre ed altri due miei fratelli, quelli più grandi. Dopo, Pietransieri è stata sfollata, perché bombardavano il paese e mettevano fuoco alle case. Siamo andati alle masserie, a Limmari. Mia madre con sei figli è andata a Limmari e siamo stati per due notti sotto un albero, con una tenda. Avevamo tutti fatto delle tende. I tedeschi venivano, ci interrogavano, bombardavano il paese e prendevano tutti gli animali, i maiali e quello che trovavano. Il 16 novembre per primo hanno preso mio fratello. L’ hanno portato a Pietransieri con i maiali e l’hanno ucciso. Poi hanno preso l’altro mio fratello e l’hanno ucciso in un boschetto. Noi siamo rimasti sotto la tenda per altri cinque giorni. Poi, il 21 novembre, sono venuti di nuovo i tedeschi dicendo che dovevano ammazzare tutti quanti… Poi venne un tedesco, era bravo, e ci disse che dovevamo scappare, perché sarebbe venuta la SS e tutti kaputt. Con la mano aveva fatto cenno: tutti kaputt. Abbiamo cominciato a scappare verso Castel di Sangro… Dopo mezz’ ora è arrivata la SS e ci hanno raggruppati. C’era un tronco d’albero e hanno fatto sedere la gente intorno. Poi hanno messo una mina, grande come un vaso di fiori e l’hanno fatta saltare. Dopo che la mina era scoppiata, i tedeschi cominciarono ad uccidere i feriti con la mitragliatrice. Io stavo sotto braccio a mamma. Ero la più piccola dei figli. Si sa che quando c’è un pericolo la madre stringe a sé tutti i figli. Io ero la più piccola e così mi ha abbracciato. Mia madre aveva uno scialle sulle spalle e come i tedeschi hanno mitragliato è caduta ed è morta all’ istante. Io sono caduta sotto a mamma e sono rimasta lì, lo scialle di mamma mi aveva coperto… Tutti strillavano. La prima volta che hanno cominciato ad uccidere che urli si sentivano! Poi è rimasto solo silenzio. Non si sentivano neanche più gli uccelli. Niente! Non si sentiva niente. Tutto il mondo era silenzio. Sono rimasta lì sotto a mamma, zitta, non parlavo. Ero piena di buchi, sono piena di buchi. Buchi che passano da parte a parte. Dopo un po’ ho cominciato a muovermi, ma ho visto che c’erano solo morti. Uno sopra l’altro, tutti morti. Avevo alzato la testa quando ero ancora sotto a mamma ed avevo visto mio fratello che mi stava vicino. Mi ha detto: Virginia, è morta mamma? Io gli risposi di sì. Era morta sull’istante, l’avevo morta su di me. Mio fratello aveva un buco fatto con la mitragliatrice. Un buco da parte a parte che gli aveva trapassato un occhio. Poi, dopo che gli avevo risposto, abbassò la testa e morì anche lui… I tedeschi si erano allontanati un bel po’, avevano ammazzato e se ne erano andati. Dopo un po’ però sono ritornati per vedere se i morti erano davvero morti. Andavano con la pistola in mano, e con il piede spostavano la gente. Allora io abbassai la testa sotto lo scialle di mamma e così non mi videro. Chi invece si muoveva ancora, veniva ucciso con un colpo di pistola alla testa. Sono rimasta sotto a quei cadaveri per due giorni e due notti. Poi, dopo tutto questo tempo, ho visto due donne di Pietransieri che venivano lì vicino. Allora le chiamai, perché le avevo riconosciute e chiesi loro se mi potevano portare via. Mi sollevarono dai morti e mi portarono vicino ad un ruscello d’acqua. Poi mi dissero: “Adesso vediamo se c’ è qualcuno della tua famiglia, così ti mandiamo a prendere. Tu aspetta qui”. Loro non mi poterono portare via, perché ognuno cercava di scappare per salvarsi. Sono rimasta vicino a quel ruscello un’altra notte, insieme ad un ragazzo che si era salvato. Questo ragazzo stava peggio di me, era ferito gravemente alle mani e poi non poteva camminare. Quella notte, quelle due donne ci misero dentro ad una mangiatoia in una masseria, dove c’erano gli animali. Era notte tardi e vennero ancora i tedeschi. Questa volta misero fuoco alla masseria. Cadevano tutte le travi di legno del soffitto. Ci cadevano addosso grossi carboni. Dissi a quel ragazzo che si chiamava Flavio: “Se non ci hanno uccisi i tedeschi, mica dobbiamo morire abbruciati”, e così siamo saltati giù dalla mangiatoia. Poi tutti e due ci siamo rotolati per terra e siamo usciti dalla masseria. Siamo andati vicino ad un ruscello d’acqua. Stavamo tutti e due stesi per terra. La mattina seguente, i tedeschi andavano ancora in giro con il fucile in mano. Così dissi a Flavio: “Questi abbaiano come i cani, quindi non sono italiani. Tornano un’altra volta”. Forse è stato Iddio…..Stavamo stesi per terra come morti, e come i tedeschi sono venuti ci puntavano il fucile dietro le spalle, e con il piede ci muovevano per vedere se eravamo morti. Niente. Noi non ci siamo mossi. Né io né Flavio. Quelli dissero: “ja, ja, kaputt, kaputt” e se ne andarono. Più tardi, sempre di mattina, arrivò mia nonna che era viva e che era stata in un’altra masseria. Quelle donne che mi avevano visto le avevano detto che stavo lì. La sentivo strillare. Chiamava e chiamava i miei fratelli, mia sorella e mia mamma, ma sapeva che erano morti. Lo faceva con disperazione. Poi chiamava me: “Virginia, Virginia”. Era venuta con un’altra donna. Si avvicinarono ed avevano una pizza fatta con il pane. Quelli sono bambini ed avranno fame, pensavano. Ma io neanche dopo otto giorni ho potuto mangiare. Quel ragazzo invece ha preso la pizza e l’ ha mangiata. Mia nonna quel ragazzo non l’ha potuto portare. Era ferito peggio di me. Quando mia nonna mi prendeva sotto le gambe io strillavo, se mi prendeva sotto le braccia lo stesso. Mia nonna diceva: “Come faccio a portarti, figuriamoci Flavio”. Poi mi prese per una spalla, dove avevo meno dolore e mi caricò su di sé. Quel ragazzo è rimasto lì, nonl ’hanno potuto portare. Mi hanno portato in una masseria dove c’era tanta gente di Pietransieri, che si era salvata. Quando mi videro ero un vaso di sangue. I panni mi si erano attaccati addosso, ero senza scarpe… Non sapevano dove mettere le mani. Dicevano: “E ora come facciamo?” Non mi potevano toccare perché i panni mi si erano attaccati addosso; dopo quei giorni il sangue si era assutto addosso. Così prepararono un caldaio d’ acqua, lo misero in una bagnarola e mi calarono lì dentro per un bel po’. Poi una donna di Pietransieri, che ora è morta, cominciò con una forbice a tagliare piano piano i vestiti. Quando mi tolsero tutto e videro tutti quei buchi, tutte quelle ferite, strillarono loro per me. Io ho cinque buchi, al braccio, al petto e alle gambe. Alla fine mi lavarono tutta e con qualcosa di lino mi disinfettarono i buchi. Dopo mi avvolsero dentro un lenzuolo, senza mettermi niente addosso e mi sistemarono in quella masseria. Acqua e sale mi hanno guarito… Le donne che mi avevano curato andarono il giorno dopo a prendere Flavio, per salvare quell’altra anima di Dio. Così dicevano le donne di allora. Ma non era andato nessuno a prenderlo. Aveva camminato molto perché lo ritrovarono in un’altra masseria. Morto. Dopo, da Pietransieri io, mia nonna e quella vecchietta andammo a S. Demetrio, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra… ». Testimonianza di Virginia Macerelli, tratta da “E si divisero il pane che non c’era”.
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Castello Pandone di Cerro al Volturno
Di ritorno dalla Meta non potevamo non fermarci a visitare Cerro al Volturno, che con la conformazione del suo castello, così arroccato e suggestivo, aveva catturato già all'andata tutta la nostra attenzione. Lo vedevamo erigersi su tutto quello che lo circondava, così impostato e massiccio, dava sul serio l'idea diuna fortezza inespugnabile. Il castello di Cerro al Volturno, situato in posizione dominante rispetto all’abitato, fu edificato su uno sperone roccioso a forte strapiombo, con un non facile lavoro di adattamento al terreno sottostante e di intaglio della roccia sulla quale si erge. Le prime notizie su Cerro (il cuitoponimo pare derivare dall’omonimo robusto albero allora particolarmente diffuso nella zona) si rinvengono nel Chronicon Volturnense e risalgono alla fine del X secolo, quando i principi longobardi concessero all’abate Goffredo della vicina San Vincenzo di autorizzare l’insediamento di alcuni coloni contadiniper il controllo del territorio dell’alta Valle del Volturno. Probabilmente una prima costruzione difensiva a pianta quadrangolare risale proprio a questo periodo e, verosimilmente, sui suoi resti, alla fine del XV secolo, Camillo Pandone fece costruire un edificio dalle formeanacronisticamente medievali. A Francesco Pandone e al suo successore Federico sono ascrivibili le maggiori trasformazioni della struttura (dal consolidamento della cinta muraria alla costruzione delle torri cilindriche) realizzate, per lo più, in funzione di un suo adeguamento alle nuove esigenze di difesalegate all’avvento delle armi da fuoco. Nel 1606 il castello fu acquistato dai Colonna e la contessa Lucrezia Tumacella, moglie di Filippo Colonna, dispose forse le ultime modifiche, a testimonianza delle quali fu posta la lapide (sovrastata dallo stemma della famiglia Colonna) murata sul prospetto principaledell’edificio, che passò poi nelle mani dei Carafa fino al termine dei vincoli feudali. L’elemento caratterizzante della struttura sono le dimensioni, soprattutto in relazione al suo posizionamento: essa è dotata di tre torri cilindriche, di cui due difese da bastioni e con punta a sperone. Vi si accede a piediattraverso un reticolo di strette viuzze che si sviluppano lungo i fianchi della montagna ed, in particolare, percorrendo una stradina a scale che parte dal borgo di Santa Maria Assunta. Varcando il portale secentesco, unico ingresso sul lato sud, vi è un’ampia corte sulla quale si affaccia la cappella. L’odiernoaspetto del castello è fatto di numerosi interventi che nei secoli lo hanno trasformato da fortezza a residenza nobiliare e, ancora recentemente, è stato interessato da restauri conservativi voluti dalla famiglia Lombardi, attuale proprietaria. (Tratto da un cartello informativo del luogo, posto dal Ministero per i Beni e leAttività Culturali – Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, per il Patrimonio Storico, Artistico e Demoetnoantropologico del Molise – PROGETTO MIRABILIA – PIANO DI COMUNICAZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE NAZIONALE).
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