skip to main |
skip to sidebar
Ci inoltravamo nella bellezza curata dei giardini, tra
edifici eretti da simbologie, tra codici incomprensibili e manifestazioni di
archetipi.
La grande bocca di Giona ci ingoiava mentre navigavamo nel buio
della nostra esistenza, con una sola luce a farci da faro nell’oscurità:
Amor
vincit omnia.Ho visitato la Scarzuola nel mese di maggio, come regalo per
il mio
compleanno. Ogni cosa preannunciava l’impossibilità della visita, tra
prenotazioni sold-out e tempi assolutamente scaduti, eppure
io la Scarzuola
(davvero non so come) sono riuscita a visitarla. Marco Solari, il nostro
“Caronte” accompagnatore di anime-visitatori
inconsapevoli, mi faceva
riflettere su come “chi dice la verità” susciti timore, anch’io ero esitante
nel fare le mie domande,
nonostante la curiosità sulle svariate simbologie e il
rispetto per il luogo. Inizialmente pensavo a William Shakespeare e al
valore del
buffone di corte in scena come detentore di verità profonde, poi capivo il
timore che suscitava chi non aveva paura
di essere giudicato. Lì ho focalizzato
l’attenzione sull’approccio di chi non vuole essere compiacente: è una libertà
spirituale
che non scende a compromessi.
I ruderi dell’antica Taverna di Collepietro giacevano anonimi
tra i rovi, tutto era stato fagocitato dal tempo, soltanto la memoria
del nome
era rimasta a darne testimonianza. Poche mura, a malapena protese al cielo, un
tempo facevano da riferimento importante
per chi passava sulle vie della
Transumanza, quando tutto era più lento e dilatato, i viaggi si compivano a
piedi e a rischiarare la notte
c’erano soltanto i lumi delle lanterne. Chissà
come doveva apparire la Piana di Navelli a quei pastori nella notte rischiarata
soltanto
dalle stelle, quanto dovevano essere preziosi quei ripari per loro e
le loro greggi, e quanto era apprezzato un pasto caldo ed un
giaciglio al
sicuro. Adesso i tempi erano cambiati, le distanze annullate, le priorità differenti
con esiti scontati sul valore delle cose.
Interessanti informazioni sulla zona sono riportate in
questo articolo che invito a leggere:
Sull’altopiano dei Prati di Foce, nascosti nel
fitto della vegetazione, rimanevano i resti di un’antica chiesa battesimale
dedicata
a San Giuliano. L’individuazione era stata facilitata da una piccola
targa e da alcune segnalazioni temporanee poste recentemente,
plausibilmente
finalizzate alla valorizzazione storico-naturalistica del territorio.
L’attestazione della chiesa risaliva alla metà
del XII secolo, e secondo gli
studi la sua struttura era frutto del reimpiego di blocchi calcarei e di epigrafi
di età romana.
Le piccole mura rimaste in piedi definivano come uno scrigno
l’area sacra, che con la consapevolezza della storia e la bellezza
del bosco
circostante, si svelavano ancor più preziose nella percezione. (Interessanti
informazioni sulla chiesa sono riportate in
questa pagina web). L’altopiano di Foce
si raccoglieva sotto il suo anfiteatro di montagne dai manti boscosi imbruniti
dal
freddo, con l’erba rasa ancora verde dei prati che ingannava la percezione
delle stagioni. Una modesta pioggia scendeva
leggera, bagnando i colori e
rendendoli più brillanti. La magnifica quercia di Basanello – la famosa Cacatora – ci accoglieva
come un riparo,
così imponente e antica, censita e protetta, giungeva a noi come un monumento
da tutelare. Tra strade
e antichi sentieri dimenticati e poi riscoperti
compivamo un anello ridiscendendo nella piana presso il Casale Federici, ancora
in piedi ma cadente e malridotto dal peso degli anni, sempre più vestito di
rovi e destinato all’oblio.
I morbidi pendii di Monte Calvo trattenevano a malapena i
residui di neve, concentrati maggiormente nella parte sommitale.
La bellezza
dei panorami era ammirabile a trecentosessanta gradi, complice di una giornata
tersa dalle condizioni più simili a
quelle della primavera prossima al
risveglio, mentre l’inverno era già a Nord, dove il freddo assumeva la luce blu
delle ombre
sulla neve, tra piccoli ricami di calaverne ghiacciate. Una lunga
carrareccia metteva in congiunzione il Ponte Radio, Forca
Porcini, il Ricovero
delle Jubbere e Fonte Crovella, ne seguivamo parti dissestate, tra i pendii
erbosi e parti liminari di bosco. Il
pomeriggio si inoltrava presto nel buio, i
cavalli trovavano riposo alle pendici della montagna e tutto volgeva nella
quiete.
Sotto Monte Etra,
nelle vicinanze del "Vado Castello" del Sirente a quota 1572, su un
gradone roccioso denominato "Mandritti"
(ex "Casareni di S.
Marco"), sono i resti del più antico monastero Celestiniano della Marsica,
quello di Sancti Marci eretto
intorno al 1289 sui i resti di una antica cella
eremitica ed ampliato prima del 1304 da Bartolomeo di Trasacco, discepolo e
biografo di Celestino V. Consiste in una struttura quasi rettangolare divisa in
tre parti su due livelli, impostata sulle escrescenze
rocciose dei luogo con
ingresso sul fianco sud-ovest e dotata di feritoie sul lato a valle. Fu
abbandonato nel 1328 perché la località
era disturbata "dai
malviventi" ed i monaci si trasferirono nella nuova sede più sicura e poco
accessibile di S. Marco alle
Foci al termine delle Gole di Aielli-Celano.
(Grossi G., Celano. Storia Arte Archeologia, Avezzano, 1998) (Micati E., La
Montagna e il
Sacro, Carsa Edizioni, 2018). L’antica costruzione si distingueva
a malapena dalle rocce per via del suo colore. L’affaccio panoramico
sul Fucino
era un privilegio visibile dalle finestre strombate, varchi aperti al cielo
attraverso un muro dallo spessore di un metro.
I secoli avevano corroso quelle pareti
un tempo accoglienti, punto di riferimento per i viandanti che dal Fucino alle
Rocche si
recavano ai pascoli, mentre il paesaggio manteneva inalterata la
bellezza sullo spartiacque tra i dolci declivi e l’orrido delle Gole.