venerdì 2 settembre 2011

I calanchi di Aliano

"I grandi calori andavano passando, in quel settembre avanzato, e cedevano al primo fresco precursore dell’autunno. I venti mutavano direzione, non portavano più l’arsura bruciante dei deserti, ma un vago sentore marino; e i tramonti allungavano per delle ore le loro strisce di rossi fuochi, sui monti di Calabria,nell’aria piena dei voli delle cornacchie e dei pipistrelli. Sulla mia terrazza il cielo era immenso, pieno di nubi mutevoli: mi pareva di essere sul tetto del mondo, o sulla tolda di una nave, ancorata su un mare pietrificato. A monte, verso levante, le casupole di Gagliano di Sotto nascondevano agli sguardi il resto del paese,che, costruito sulla cresta di un’onda di terra, a saliscendi, non si riesce mai a vedere intero da nessuna parte: dietro i loro tetti giallastri, spuntava la costa di un monte, al di sopra del cimitero, e di là, prima del cielo, si sentiva il vuoto della valle. Sulla mia sinistra, a mezzogiorno, c’era la stessa vista che dal palazzo: ladistesa sconfinata delle argille, con le macchie chiare dei paesi, fino ai confini del mare invisibile. Alla mia destra, a mezzanotte, scendeva la frana sul burrone rinchiuso fra i monti, che mostravano la loro faccia spelacchiata e brulla: in fondo al burrone il sentiero, dove vedevo muoversi, non più grandi diformiche, i contadini che andavano e venivano dai campi. (…) Dinanzi a me, verso occidente, dietro le larghe foglie verdi e grigie del fico dell'orto e i tetti delle ultime catapecchie digradanti in pendio, sorgeva il Timbone della Madonna degli Angeli, un monticciolo di terra tutto incavi e sporgenze, con pocaerba rada qua e là nella parte meno dirupata, come un osso di morto, la testa di un femore gigantesco, che portasse ancora attaccati dei brandelli secchi di carne e di pelle. A sinistra dietro Timbone, per un tratto lunghissimo, fino laggiù in fondo, verso l’Agri, dove il terreno si spianava in un luogo detto Il Pantano,era un seguirsi digradante di monticelli, di buche, di coni di erosione rigati dall’acqua, di grotte naturali, di piagge, di fossi e collinette di argilla uniformemente bianca, come se la terra intera fosse morta, e ne fosse rimasto al sole il solo scheletro imbiancato e levato dalle acque. Dietro questo ossame desolatoera nascosto, su una piccola altura sul fiume malarico, Gaglianello, e più lontano si vedeva il greto dell’Agri. Di là dall’Agri, su una prima fila di colline grigie, sorgeva bianco Sant’Arcangelo, il paese di Giulia, e dietro, più azzurre, si levavano altre colline ed altre ancora, schierate più indietro, con dei paesi vaghi nella distanza, e più in là ancora i borghi degli albanesi, sulle pendici del Pollino, e dei monti di Calabria che chiudevano l'orizzonte. Un po’ a sinistra e più in alto di Sant’Arcangelo, appariva, a mezza costa di una altura, il biancore di una chiesa. Qui usavano convenire in pellegrinaggio le genti della valle: era un luogo di molta devozione, sede di una madonna miracolosa. In questa chiesa erano conservate le corna di un drago che infestava, nei tempi antichi la regione. Tutti, a Gagliano, le avevano vedute. Io purtroppo non potei mai andarci, come avrei desiderato. (…) Mi accorsi allora che il paese non si vedeva arrivando, perché scendeva e si snodava come un verme atorno ad un’unica strada in forte discesa, allo stretto ciglione di due burroni, e poi risaliva e ridiscendeva tra due altri burroni, e terminava sul vuoto. La campagna che mi pareva di aver visto arrivando non si vedeva più; e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come librate nell’aria; e d’ognintorno altra argilla bianca senz'alberi e senz'erba, scavata dalle acque in buche, in coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare. Le porte di quasi tutte le case, che parevano in bilico sull’abisso, pronte a crollare piene di fenditure, erano curiosamente incorniciate di stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia, sì che tutto il paese sembrava a lutto, o imbandierato per una festa della Morte. (…) un canto animalesco pareva stendersi sul paese abbandonato. Nel silenzio meridiano, un rumore improvviso rivelava una scrofa che si rotolava nelle immondizie: poi gli echi venivano svegliati dallo scroscio irresistibile di un raglio, più sonoro della campana, nella sua fallica grottesca angoscia. I galli cantavano, con quel loro canto del pomeriggio che non ha la gloriosa petulanza del saluto mattinale, ma la tristezza senza fondo della campagna desolata. Il cielo era pieno di corvi, e, più in alto, delle grandi ruote dei falchi: ci si sentiva guardati di fianco dai loro occhi immondi e rotondi. Invisibili presenze bestiali si manifestavano nell'aria, finché, di dietro a una casa, compariva, con un balzo delle sue gambe arcuate, la regina dei luoghi, una capra, e mi fissava con i suoi incomprensibili occhi gialli". (…) Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli.

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