giovedì 30 settembre 2010

Le Quàrtora e la Costa Grande da Roio Piano

Sopra L’Aquila c’è una lunga dorsale montuosa sulla cui estremità è percepibile un specie tabellone nero, si tratta di un grande ripetitore che, considerate le dimensioni, è visibile anche da molto lontano. A costituire questo crinale montuoso sonosoprattutto due montagne: la Costa Grande (1420 m) e le Quàrtora (1783 m). Partendo da Roio Piano (804 m) la mia curiosità cartografica era indirizzata inizialmente a scoprire un luogo, letto e riletto più volte sulla mappa e mai individuato: la PietraPidocchiosa. Sono arrivata alla conclusione che tale Pietra Pidocchiosa non esiste in sé per sé, ma che è solo un nome relativo ad un’area circoscritta dotata di una cisterna per raccogliere l’acqua piovana. Delusissima da questa realtà (d’altronde chissàche m’aspettavo) io e le mie due amiche ci siamo direzionate subito in cresta. Solitamente attribuisco al Gran Sasso i paesaggi lunari, a tutta quella serie di avvallamenti e collinette brulle vestite di silenzio e d’empireo, eppure qui ho trovato la stessacondizione oltre la cresta della Costa Grande. I grossi maceroni circolari maculavano la terra coperta di falasco, tanto da conferirgli una percezione irreale, confondibile appena ad un’ambientazione onirica. Quelle linee si accompagnavano tra diloro seguendo tornanti e piani obliqui, falsavano una percezione romantica di un luogo semplice, probabilmente intimo. Mi piace molto quel posto, davvero mi fa pensare alla luna. A filo di cresta abbiamo raggiunto la cima delle Quàrtora (1783 m). Chissà perchési chiama così, di certo mi viene da pensare che tale nome è legato al pascolo e alla transumanza: nel piano sotto di noi c’erano molti armenti. Nella via del ritorno abbiamo deciso di allungare il giro passando intorno alla Costa Grande, questo sia perché nonavevamo voglia di scendere per passaggi tanto ripidi e sia perché volevamo scoprire un altro percorso. Attraversando varie tracce segnate dal bestiame ed un piccolo bosco di noccioli abbiamo intercettato di nuovo la via del ritorno.

domenica 26 settembre 2010

Traversata del Gran Sasso e il Ghiacciaio del Calderone

Stamattina il Gran Sasso era vestito di una femminilità inaccessibile. Il bianco della nebbia velava la roccia in un candido vestito da sposa. Ho sempre pensato che fosse il bianco il colore delle regine, ed oggi quella montagna era davvero regale. Si camminava passando attraverso nuvole basse, dal cui interno ogni orizzonte si percepiva ovattato e spento, i punti di fugacorrevano solo pochi passi e si smorzavano in leggere stratificazioni di bianco. Il candore delle rocce era accentuato dalla brina, che modellata dal vento ne creava una sottile estensione. Quel pericolo scorreva impercettibile lungo un ingenuo profilo, così silenzioso e infido, era l’altra faccia della bellezza. Il vento gelido comprimeva le meningi e nella mia testa prendeva corpo solo un pensiero: sta arrivando. Che sia benvenuta la stagione del freddo, portatrice di meraviglie. Nella giornata di oggi si festeggiava il Franchetti, il CAI dell’Aquila aveva invitato 99 alpiniste da tutta Italia per percorrere le vie del Corno Grande e del Corno Piccolo. Peccato che il tempo ha eclissato questo incontro così simbolico, costringendole tutte ad un percorso unico che raggiungeva il Rifugio da Campo Imperatore, escludendo qualsiasi ascensione. Prima dei festeggiamenti sono salita al ghiacciaio, se davvero si doveva celebrare la femminilità non potevo che recarmi da lei, dalla neve, dalla morena. Nessuna donna poteva esserne superiore nella caratteristica, perché quella era l’elevazione di un’anima sublime. I ghiacciai sono delle cattedrali di venerazione, e la neve è la manifestazione più tangibile di una divinità.

domenica 19 settembre 2010

Bosco di San Gerbone dalla Fonte d'Amore


Il bosco di settembre focalizza un punto di vista due passi dietro a noi: è un qualcosa che non so definire bene, fatto di una lieve nostalgia appena passata. Come l’estate appena trascorsa che tiene la terra ancora un po’ calda, così è questo punto di vista, senza dubbio vivo nel suo ricordo più prossimo, mainevitabilmente appena trascorso. Forse è proprio questa la dimensione del ricordo più dolce. L’attimo subito dopo il distacco. Andando oltre tutto passa e molte cose si dimenticano, si perdono per sempre in un oblio profondo e buio in grado di ingoiare tutto. È per questo che il passato e il futuro non devono confonderci: il presente è l’unica condizione possibile per le anime sensibili. Altrimenti sarebbe la fine. Il Bosco di San Gerbone è una foresta demaniale della Comunità Montana del Tronto, nel cuore dei Monti della Laga. Considerate le previsioni del meteo che stabilivano pioggia ovunque, oggi solo in un bosco potevamo andare, e di questo ne avevamo sentito parlare molto bene. A dare vita alla Fonte d’Amore c’era il Rio Castellano che, seguendo il suo corso, animava quel luogo così meraviglioso definito dalle felci e dai gelsi. Il sentiero costeggiava faggi, pietre d’arenaria e, di tanto in tanto, anche qualche cascata. La pioggia dava un’altra veste al bosco: svegliava una natura rinnovata dall’acqua, e solo grazie alla sua abbondanza ci ha dato la possibilità di assistere ad un incontro altrimenti impossibile: quello con le salamandre. Erano bellissime, gialle e nere, ci attraversavano la strada con la loro andatura oscillante. Aristotele le identificava come animali del fuoco, in realtà appartengono solo all’acqua e alla notte. In silenzio abbiamo aspettato che passassero, senza toccarle e disturbarle. L’aria profumava di sottobosco, ci entrava dentro i polmoni e si distribuiva ovunque dentro di noi, facendoci sentire parte di quel tutto che ci apprestavamo ad attraversare. Bagnati dalla pioggia, che ci accompagnava fin dall’inizio, abbiamo raggiunto la Casermetta di San Gerbone, dove oltre ad un rifugio della Forestale c’era una tettoia aperta dotata di camino, un riparo ordinato che lasciava trasparire la cura e l’amore con cui veniva tenuto. Non potevamo che rivolgere il massimo rispetto ad un posto così bello. Rifugiati sotto la tettoia ci siamo congedati dalla pioggia, accendendo un piccolo fuoco per asciugarci. È stato un momento bellissimo, tutti e quattro davanti al camino, investiti da un calore piacevole che ci assorbiva, mentre a pochi metri da noi prendeva corpo il temporale. Non so quanto tempo siamo stati così. Cessata la pioggia, la Natura si riscopriva nitida fino in lontananza. Ripreso il sentiero, il percorso ad anello scendeva aspramente nel bosco, in una traccia instabile e fangosa che ha riattivato fin da subito la nostra attenzione assopita dal fuoco. Un altro schiaffo ce l’ha dato di seguito un ulteriore temporale che, nell’ultimo tratto, non ci ha concesso minimamente tregua. Dati del GPS: 16,5 km percorsi; 739 metri di dislivello in salita; 4h 41' di ore effettive di cammino.

giovedì 16 settembre 2010

Monte Sirente dalla Valle Lupara e la Neviera


Lungo il versante Nord-Est del massiccio del Sirente si snoda un’antica mulattiera che per secoli è stata calcata dai tagliatori di ghiaccio di Secinaro per raggiungere la Neviera. Questa depressione esposta a Nord permetteva di conservare la neve fino ad un inoltrato periodo estivo, costituendo così un’ottima dispensa di ghiaccio, bene che in passato aveva un valore molto pregiato. I nevaroli salivano dal paese fin lassù, prendevano il ghiaccio e lo tagliavano in blocchi, poi lo disponevano dentro delle gerle di vimini isolandolo con foglie secche e, aiutati dai muli, lo trasportavano a valle, dove in seguito lo commerciavano in paese. Erano riusciti a trovare un’ottima soluzione di isolamento termico utilizzando la paglia e il fieno, così buona da consentirgli addirittura di vendere il ghiaccio nel Lazio e nelle Puglie! (Chissà quanto costava allora un gelato…). Il periodo in questione va dal ‘500 ai primi del ‘900, fino a quando questa attività fu soppiantata dalla produzione del ghiaccio industriale. La Neviera non è solo un’oggettiva dispensa di ghiaccio, ma una soggettiva custode del freddo. Sapere che, a prescindere da tutto e tutti, è in grado di mantenere nel suo grembo la neve, ha fatto innescare in me il desiderio di riverenza e di pellegrinaggio. È per questo che volevo tanto andarci, e poi la neve mi mancava tanto. Il sentiero per raggiungere questo circo glaciale è una deviazione di quello che da Fonte all’Acqua (1156 m) sale sulla vetta del Sirente (2348 m), passando per la Valle Lupara. Tale deviazione purtroppo non è molto visibile, e poi buona parte della zona è stata interessata da una slavina che ha buttato giù diversi alberi, proprio a ridosso del sentiero. Con calma e GPS abbiamo ritrovato la traccia, intorno ad una quota di 1700 m. L’ombra fredda del mattino vestiva di rigore il secolare bosco di faggi. Mano mano che salivamo il nostro silenzio era fatto solo del rumore dei rami e delle foglie che calpestavamo, nessuno parlava, solo il sottobosco. Il grosso canale ghiaioso della Neviera si era aperto prominente ai nostri occhi appena usciti dalla faggeta. Ero molto delusa perché la neve non c’era. Quelle gigantesche pareti di roccia si alzavano maestose e ripide sopra le nostre teste, tanto da farmi sentire piccola e assoggettata da tutto quello spettacolo. Erano scure e friabili, accostate solo dai corvi che vi dimoravano. Volevo andarmene. Raggiunta la parte sommitale della Neviera (circa 2000 m) la neve è apparsa come un regalo, inserrata tra le rocce che la custodivano gelosamente. Anche se sporca e trasformata era comunque luminosa e bellissima: era l’anima di quel posto, il cuore, il suo centro energetico da proteggere. La Neviera senza neve sarebbe stata solo passato. Vedere che nonostante lo scorrere del tempo tutto questo resisteva, non so per quale motivo, inconsciamente mi consolava. Era la stessa sensazione di quando si torna nei posti in cui si è stati da bambini: il difficile confronto tra la memoria e l’attuale spazio-tempo. Ero felice di averla trovata. Evitando – meno male – qualsiasi tentativo di arrampicata libera per raggiungere la cresta (Monte Corvo docet) siamo tornati indietro a riprendere il percorso segnato, quello che sale sulla vetta del Sirente passando per la Valle Lupara. Questo è senza dubbio il percorso più bello per raggiungere la cima, vario e panoramico, meraviglioso ed esposto. Una volta su, il lato morbido del Sirente ci ha accolto con i suoi punti di fuga che correvano flessuosamente a valle. Dopo una breve pausa siamo riscesi passando per la Valle Inserrata, comunemente conosciuta come Canale Maiori, facendo attenzione a seguire alcune tracce per evitare di deturpare il maestoso ghiaione. Ho cercato qualche informazione a riguardo di questo doppio nome, e la supposizione più logica me l’ha fornita un esperto conoscitore del territorio: è probabile che Maiori sia l’evoluzione linguistica di Majore (maggiore), nome riportato in alcune mappe cartografiche, e la Valle Inserrata è senza dubbio il canale più grande del Sirente. Nulla di certo, ma è probabile che sia proprio questa l’origine. Secondo i dati del GPS abbiamo percorso 16,4 km, compiendo un dislivello in salita di 1543 m, e impiegando 5h 32' in movimento.

domenica 12 settembre 2010

Pizzo Berro dalla Valle del Panico


I Sibillini sono montagne rilassanti, la loro conformazione morbida permette di allentare le preoccupazioni e di elevare l’inconscio a filo di cresta. I ripidi pendii erbosi sono in grado di far scivolare giù tutti i pensieri, l’unica cosa oggettiva che trattengono è il canto della Sibilla, follia di pochi, sembrava di ascoltarla nei momenti di maggior silenzio. Quel mistero correva lungo tutti i crinali e le vallate, si tuffava negli inghiottitoi e riappariva sulle cime. Non posso che amare tutto questo. Mi fa stare molto bene. Le morfologie seguivano linee lisce e sconfinate, quelle montagne si percepivano come da dentro un sogno, dove le forme si sintetizzano nella semplicità più infantile. Una persona che era con me mi ha fatto notare che sono queste le montagne che disegnano i bambini, quanto è vero, sono proprio queste. La scelta di Pizzo Berro (2259 m) è stata una proposta del CAI dell’Aquila, e la fortuna ha voluto che il gruppo fosse piccolo, stranamente silenzioso e ben amalgamato. Siamo partiti da Casali, un paesino frazione di Ussita, in provincia di Macerata. Da lì, a seguito di una lunga carrareccia, ci siamo addentrati nella Valle di Panico, un’enorme vallata che sale verso due circhi glaciali separati da un crinale montuoso. È proprio da qui che abbiamo preso la cresta. Il panorama intorno a noi si apriva come un respiro a pieni polmoni. La parte finale che conduce alla vetta era ferrata da due catene, questo è l’unico tratto attrezzato di tutti i Monti Sibillini. Con calma e prudenza (abbiamo usato anche una corda) siamo saliti su, uno alla volta. Le nuvole si lanciavano in molteplici giochi di forme, togliendoci il calore del sole. Nella mia mente prendeva corpo la consapevolezza di settembre, della sua aria e della sua bellezza. Sta cambiando la stagione, ed io amo i momenti di passaggio, quando la normalità si altera e disturba le piccole abitudini appena formate. Mi piace tanto questo lieve disorientamento, perché mi dà modo di mettere a fuoco le cose appena trascorse (tutto si comprende meglio con la sua assenza). Il percorso complessivo dell’escursione è stato di 18 km, con un dislivello in salita di circa 1400 metri. Nei tempi abbiamo impiegato 4 ore a salire (con pausa/ferrata) e 3 ore scarse a scendere. Ad accompagnarci c’erano AE Leucio Rossi (coordinatore dell’escursione), AE Latino Bafile e AE Mario D’Angelosante.