giovedì 29 marzo 2012

Monte Jenca dall'Acqua di San Franco

Ci sono delle montagne che in modo particolare si legano alla primavera, a mio giudizio personale, si collegano al suo risveglio e alla sua bellezza. Certamente sono belle in ogni stagione, manella mia mente assumono la conformazione morbida di una Natura grande e materna, che nelle sue rotondità contiene l’idea più bella del principio della vita. Sono le montagne ad Ovest delMassiccio del Gran Sasso, così arrotondate e rinverdite, così smussate e lisce di prati rasi dai pascoli. Monte San Franco e Monte Jenca sono le montagne che più si legano a questa miaidea, le associo da sempre come due simili, e mi piace pensarle accarezzate dai venti e baciate dal sole, animate dal calore raccolto dalla terra che mano a mano si rilascia al cielo. Salivamodal Vasto verso il Passo del Belvedere, le ultime lingue di neve si erano ritirate di molto rispetto la scorsa settimana. Tutto era pronto per accogliere le varie fioriture, con le violette e i crochiche ne davano il preavviso. Le nuvole alte si muovevano compiendo schermature e proiettando ombre sugli avvallamenti sottostanti, pareva come se tutto si ridisegnasse nuovamente divolumi e cavità, che la natura stessa si rivelasse vestita di un’altra identità. La cima tratteneva ancora qualche lingua di neve, ma facilmente percorribile, guardavamo il resto del Gran Sasso evedevamo la Sella di Monte Corvo come una bocca da cui si apriva il resto dell’inverno. Tra i chiaroscuri delle ombre e l’aria nitida fino in lontananza, si compiva uno spettro perfetto dicolori, assistevamo alla bellezza con la consapevolezza della sua enorme meraviglia.

domenica 25 marzo 2012

Monte Bolza dalla Valle della Cacera

Monte Bolza ammirava la catena del Gran Sasso dalla sua posizione privilegiata, era come una sentinella, e proteggeva Castel del Monte dalle intemperie di Campo Imperatore. Lagiornata incerta disegnava rovesci su diverse località, vedevamo in alcuni punti il cielo gonfio e carico di sfumature grigie rigettarsi verso il basso in diffusioni piovose, ma fortunatamente su di noi simanteneva un tempo costante. Salivamo cresta cresta lungo il crinale da Est, tra rocce sconnesse e grossi ghiaioni, la vista era da subito bellissima, così affacciata sulle numerose dolinesottostanti. Giunti nella parte sommitale della montagna una leggera nevicata ci regalava la percezione di uno scenario unico: Campo Imperatore, così maculato dalla neve, stemperava le suetonalità contrastanti, appagando lo sguardo in una lunga percezione d’insieme. Come eravamo fortunati in quel momento ad ammirare tanta bellezza. Senza pretendere troppo dal cielodecidevamo di lasciare la cresta e di scendere verso Sud, verso gli avvallamenti sottostanti, così morbidi ed rinverditi dalla nuova primavera, tra i ruderi delle condole e gli stazzi dei pastori. Granparte della bellezza del Gran Sasso risiedeva nelle tonalità grigie dei maceroni e nell’erba rasa attraversata dai sentieri silenziosi: quei colori, quei sassi, designavano perfettamente uno statod’animo, ogni cosa ti entrava dentro e si imprimeva come una visione ancestrale, ma forse sentivamo quell’amore forte perché in fondo tutto già ci apparteneva, e noi semplicemente lo riscoprivamo, ogni volta come la prima volta.

mercoledì 21 marzo 2012

Monte San Franco dalla Valle del Vasto

Adoravo la quiete di Monte San Franco, che passo dopo passo portava per mano l’inizio della Primavera. Alcuni fiori si risvegliavano timidamente, regalando il profumo al vento ed icolori ai nostri occhi, mentre in alto alcuni spiazzi di neve trattenevano a fatica gli ultimi aspetti dell’inverno. Il panorama si vestiva della calma dei pascoli di alta quota, alcuni cavallibrucavano l’erba rinnovata indisturbati dal nostro passaggio, ci scrutavano per alcuni istanti per subito poi ignorarci, così presi dalla loro natura. Sul Passo del Belvedere ammiravamo il biancocandido della neve, che, così trasformata e compatta, rivestiva quasi interamente la Valle del Paradiso. Le pareti a Nord, in questo periodo, erano tutte bellissime. Ci guardavamo intornoriscoprendo la bellezza della parte più morbida del Gran Sasso, questa montagna mi era da sempre molto cara, così legata al mio paese e alla sua gente.

domenica 18 marzo 2012

La Chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta

La chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta fu eretta nella prima metà del XI sec. Nella valle del Velino, nei pressi dell’antica Rusculum. Accanto alla dedicazione alla Vergine il tempio conserva il nome antico della valle, Porclaneta, la cui origine è variamente interpretata: taluni ritengono ad esempio che fosse un termine in uso nella lingua ebraica, con significato di“baratro”. La chiesa, inclusa in un più ampio complesso conventuale, esisteva nella valle già nella prima metà dell’XI sec., posta sopra il castello di Rosciolo, feudo dei Conti dei Marsi. Nel 1077 Berardo di Berardo donò il Castello al monastero, che nel 1080 divenne di pertinenza dell’abbazia benedettina di Montecassino. Alterne vicende interessarono la chiesa nel corsodei secoli: la distruzione avvenuta nel 1268 in concomitanza con la famiglia fra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò, un periodo di abbandono da parte dei monaci nel 1362, le dispute fra i Conti dei Marsi e l’abbazia di Farfa per la proprietà del cenobio, l’acquisizione del complesso da parte della famiglia Colonna e la rivendicazione  regia nel 1765, la distruzione del monastero, finoai restauri piuttosto invasivi del 1931. Nonostante si siano del tutto perse le tracce del monastero e quasi del tutto quelle del chiostro, la chiesa ha conservato il suo originario impianto benedettino, caratterizzato da una spazialità semplice ed essenziale e da una decorazione plastica di altissima qualità. L’organismo consisteva in un’aula rettangolare conclusa daun’abside semicircolare e divisa in tre navate da possenti pilastri posti a sostegno di arcate a tutto sesto. Al di sotto della zona presbiteriale furono ricavati gli ambienti ipogei della cripta, voltata a botte. Dell’impostazione primitiva della chiesa si conserva solo il braccio destro (la parte sinistra crollò durante la campagna di lavori del 1931), a cui fu aggiunta una navatella adun livello leggermente inferiore. Lo schema planimetrico, ampiamente sperimentato in ambito cassinese, subì un processo di adeguamento alle formule iconografiche del mondo benedettino. Due iscrizioni incise sui fianchi dei pilastri dell’arcone d’ingresso ricordano i protagonisti di questo rinnovamento: il donatore Berardo di Berardo e l’esecutoreMaestro Niccolò. La semplice impostazione della chiesa marsicana è più articolata in prossimità dell’ingresso, dove fu costruito una sorta di pronao fra il portale gotico ed il distrutto chiostro conventuale. La decorazione architettonica del tempio consiste nei pittoreschi capitelli dei pilastri, vigorosamente scolpiti a raffigurare elementi geometrici, vegetali, zoomorfi efigure umane intrise di profonde simbologie (inerenti alla prima fase architettonica, realizzati verosimilmente dagli scalpellini che collaboravano con Niccolò) e nella cosidetta “cornice benedettina”: un motivo decorativo d’ispirazione campano-abruzzese (applicato come collarino di pilastri, o come abaco sui capitelli, o come capitello di lesene) legato alla ripresaclassicista promossa dall’abate cassinese Desiderio. I frammenti della recinzione presbiteriale della chiesa (gli unici ad essersi conservati in Abruzzo, insieme all’iconostasi di San Pietro di Albe) possono altresì essere inclusi in un gruppo di sculture inerente al primo quarto del XII sec., caratterizzato dalla resa marcatamente lineare di tralci “a canna”, posti ad inquadrarefoglie e frutti. A quest’apparato esornativo si aggiunse, sul finire del XIII sec., la splendida decorazione della cortina muraria dell’abside poligonale, in cui si possono ravvisare molteplici punti di contatto con la facciata della chiesa di Santa Giusta di Bazzano e, soprattutto, con le coeve costruzioni lombarde. Elementi di maggior spicco del tempio abruzzese sono tuttaviada riconoscere nel ciborio e nell’ambone firmati nel 1150 da Roberto, che lavorò in collaborazione con Nicodemo. Sia l’ambone (posto ancora nella sua collocazione originaria) che il ciborio sono caratterizzati da un gusto calligrafico desunto dagli ornati della miniatura, che concede tuttavia ampio spazio ad articolati ed appassionati temi narrativi. (Testo tratto da uncartello informativo del luogo, posto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Comune di Magliano dei Marsi). Al di fuori della chiesa è posto un foglio con scritto: "AVVISO SACRO PER VISITARE LA CHIESA DI SANTA MARIA IN VALLE PORCLANETA CONCORDARE GLI ORARI CON IL SERVIZIO DI VOLONTARIATO TELEFONANDO AL 3665902125 IN CASO DI MANCATA RISPOSTA CONTATTARE 0863517691".

La Valle del Bicchero e la Valle Majelama

Il nome della Valle Majelama pareva riecheggiare lungo quel profondo squarcio di montagna, il sentiero si insinuava nel silenzio di quella voragine rocciosa sormontata da alte pareti untempo custodi di ghiacciai. Le morene intervallavano quell’enorme letto, scandendo lo spazio in pendenze diverse, e, mentre tutto giaceva nella solitudine di Monte Velino, dall’altoalcune grotte ci guardavano. I bucaneve tremavano al vento, che si incanalava nella valle, scuotendo le foglie e le infiorescenze dei noccioleti: tutto appariva come soggetto di apparizioni distinte,tra appezzamenti di crochi e giovani boschi piegati dalle valanghe. Portavamo gli sci a spalla alla ricerca della neve, e per alcuni chilometri avevamo lo sguardo pieno della visione diprimavera. Il vento aveva pulito quel deposito tralasciando a fatica le zone d’ombra, mentre la Valle del Bicchero manteneva inalterato l’inverno, donandoci finalmente la visione bianca dellesue ultime suggestioni. Ci inoltravamo in quell’enorme circo glaciale con la sensazione di accedere in un tempio, quella zona così isolata e distante si lasciava guardare, facendo correre il nostro sguardo sul filo delle montagne alla ricerca del cielo.

domenica 4 marzo 2012

La chiesa allagata di San Vittorino, Cittaducale

Non mi ero accorta di aver lasciato al massimo l’indicatore della sensibilità della macchinetta fotografica, scattavo le fotografie presa dalla meraviglia del luogo, senza curarmi di nulla,completamente assorbita dalla bellezza e svolgendo atteggiamenti automatici. Moltissime volte ero passata davanti questa chiesa particolare, sprofondata ed inclinata dalla forza della natura, ilmio desiderio era sempre stato quello di fermarmi, ma non riuscivo mai. Immaginavo una condizione visiva a sé, ma mai mi sarei aspettata un varco spazio-temporale così marcato. La chiesadi San Vittorino, accostata alla via Salaria, era sprofondata in parte nella terra, a causa delle sorgenti sottostanti che sgorgavano da essa: la porta del tempio lasciava fluire un’acquacristallina che seguitava a serpeggiare nel piccolo letto di fiume che da lì si originava. Il pavimento fatto d’acqua viveva del riflesso delle piante rampicanti e dei sambuchi, tra le felci, ilfresco e i rovi selvatici. Le volte si aprivano direttamente sul cielo, a causa delle macerie di un soffitto sprofondato. Tutta quella bellezza narrava una storia di secoli, tra capitelli scolpiti everbi latini: rimanevo incantata da quello spazio così suggestivo, da quella zona d’ombra così ricca di luce. Queste sono le coordinate della chiesa: 42°22'35.14"N 12°59'19.30"E