domenica 17 febbraio 2019

La Grotta del Cervo

La Grotta del Cervo si svelava tra riflessi lucenti di rocce e trasparenze di acque cristalline. Ogni volta era come riscoprirla con occhi nuovi,sotto carezze di luce che ne animavano le concrezioni, con meduse e serpenti che prendevano vita sotto la strana magia di un perpetuo buio.Le ombre ci guidavano lungo prospettive inesplorate, un viaggio terreno portato anche sul filo del sogno, dove ogni cosa potevaaccadere, perché oltre ai nostri occhi c’era la nostra immaginazione a tessere ogni apparenza. Le stalagmiti del Salone degli Antenati eranodritte dinanzi a noi come presenze, ma noi andavamo oltre, nei meandri del Fiume di Fango e nel Ramo della Luna, tra rocce nere,immersi nell’acqua che riposava nel suo greto. Tutto si rifletteva su quegli specchi, amplificando le percezioni dei miraggi. Finalmenteammiravo la grande Medusa, circondata dallo splendore delle sue acque trasparenti e dal brillare della candida calcite, così riflettente datrasparire come diamante.

domenica 10 febbraio 2019

La Grotta delle Praje di Lettomanoppello

“I viaggi non usati farsi che da pochi e raramente, sogliono avere molto dell’ideale: tali sono i viaggi degli alti monti, delle spesse foreste, de’ difficili mari, e delle caverne quasicchè inaccessibili”scriveva nel 1835 il poeta chietino Pasquale de Virgiliis, dandoci testimonianza della sua visione romantica del Sublime. Erano passati 184 anni da quando entrò nella Grotta delle Praje, alla luce dellefiaccole, tra la paura dell’ignoto e la meraviglia della Natura. Tra l’Orrido e il Sublime. Si era addentrato in quei meandri, dapprima stretti e fangosi, dove strisciare, per poi divenire ampi e dall’arialusinghiera e serena. Percorrevamo entrambe le condotte, e ovunque c’erano scritte sulle pareti che tenevano il conto delle testimonianze di chi in passato vi era stato. Di seguito la descrizione della visita allaGrotta delle Praje scritta da Pasquale de Virgiilis  nel 1835.

LA GROTTA DELLE PRAGLIE
"Son molte ed effimere le storie che si contano della Caverna delle Praglie. Io non posso rammentarmi di essa senza esser compreso in un tempo da maraviglia e da spavento, e que’ montanari parlano diquel luogo come di cosa misteriosa e terribile. Posta un miglio in su di Letto Manoppello in un selvaggio luogo, noi vi andammo alle 2 pomeridiane, tutti animosi e baldi per la cognizion d’un luogo, lanatura del quale fi no a quel dì ci era stato affatto ignoto. L’ingresso della Cava non altro ti presenta, che una buca rotonda, orizontale, appena capace a dar adito ad un uomo, e dove è d’uopo discendere ocon funi, o per mezzo di uomini che discesi prima de te faccian base delle loro spalle a’ tuoi piedi, e ti menino pian piano al basso. Così ci convenne fare, ed io primo ne feci prova attendendo che gli altrim’imitassero, ed in un momento tutti ci trovammo nel bujo. Discesi che fummo in quella cavità tenebrosa, ed accese le faci, che a tal uopo facemmo quivi portare da 6 provati montanari, eccoci in una stanzamisteriosa, che aprivasi a noi dinanzi come un gotico tempio, ma d’una fantastica e svariata architettura. Quivi erano informi colonne all’intorno chi più e chi men grandi, e la volta fatta a strati pendenti ediafani offriva l’aspetto di tanti drappi stesi ed ineguali, frastagliati nel lembo, d’un colore verdognolo, e bianco, simiglianti chi a lucido marmo, e chi a candido alabastro. Quindi gocciavan perpetue stille diacqua dalle acute stallattiti che pendean quà e là negli angoli della volta simili a candelotti di neve, e l’umidità delle pareti, il rossastro e fumante splendore delle torce ripercosso da quelle lucide punte cheparean diamanti e rubini, facevano un’alternativa la quale era la più bella cosa al mondo. A diritta ed a manca di questa prima cava si aprivano due altri spechi minori, de’ quali uno s’internava per  leviscere  del  monte  dal  lato  orientale,  l’altro dal  meridionale.  Noi entrammo nel primo: ma come la sua strettezza non dava agio a corpo umano internarvisi addentro; retrocedemmo, ed entrammo nelsecondo. Era una meraviglia vedere, come a misura che c’inoltravamo, e si squassavano le faci per rinvigorirne la fiamma, attraverso di quella densa ed umida tenebria rotta dallo splendorfioco e vacillante delle nostre torce, ci si spiegavano innanzi le interne viscere del monte in svariate forme e colori, ora più ampie, ora più strette, or ritorte ed or diritte, e mirabile sempremai per le suefantastiche sinuosità, e per que’ delicati, e lucidi massi di che eran formate le pareti e le volte, ora piane, ora spaccate in larghe fenditure simili agli archi degli antichi marmorei tempii, e sostenuti da informipilastri, e da picchi piramidali, ed alcuna volta anche pendenti a festoni, e goccianti sempre acque limpidissime e fresche. Le nostre cupe e sonore voci: i nostri passi risuonanti di più cupo e prolungatosonito: il bituminoso fumo delle torce che ci accecava gl’occhi: il terribile pensiero, che non si spegnessero, e ci lasciassero colà miseramente morire: l’asprezza del luogo, ed il timore che inmontando su quegl’umidi e sdrucciolevoli massi non avessimo a cadere e stritolarci le ossa: i continui pozzi di acqua che incontravamo per lo spazzo della cava, e che non potevam discernere e per  luogo, e per la trasparente limpidezza di essa: il desiderio di andar più oltre, e di scovrire nuove maraviglie; tutte queste cose ci comprendean l’anima sì fattamente che noi non pensavam né doveeravamo, né come fossimo entrati in quel meraviglioso, e terribile luogo. Può ben immaginarsi se io volgessi in quel punto il mio pensiero a Merlino, alla Sibilla, ed alle Catacombe di S. Gennaro: manulla eran queste a paragone della più che romantica grotta delle Praglie. Là non era né la nereggiante ardesia, non lo scisto calcario, non la bianca marna, né il ruvido tufo, ma tutto era incrostato di stillattite sì terso, sì lucido, e sì regolare, che tu lo avresti creduto marmo, e marmo lavorato. Oh! quanto meravigliosa e terribile si era la natura in quel luogo! noi pensavamo alla terra come se fossimo in inferno; l’aria ci sembrava più lusinghiera e serena, ed il pensiero che non fossimo colà schiacciati e sepolti da quelle volte cadenti, ci faceva raccapricciare, abbrividire. Ci eravam un miglio, o poco meno in quelle cave inoltrati, ora montando, ora scendendo, ed ora camminando carponi, ed arrampicandoci su quelle umide pietre, allorché ci accorgemmo, che le faci erano per mancare. Ci si chiuse la mente all’idea del pericolo a che avremmo potuto incorrere avvenendo che si fossero spenti del tutto, e noi per un momento provammo la disperazione della morte. Pur retrocedemmo a rompicollo, e nulla curando le continue cadute e la probabilità di smarrirci per que’ cavernosi laberinti: compresi tutto dal pensiero di riveder la luce, dopo moltissime giravolte ed andirivieni ci trovammo alfi ne nell’ingresso della cava, e di là riuscimmo tutti lordi e fangosi, come se fossimo stati immersi nella broda de’ superbi di Dante; e così ritornammo a Letto-Manoppello. Non dirò come si formino queste cave, e di che specie sieno le stallattite, credendo che sia, o debba esser privilegio comune la scienza naturale: dirò solo che il nostro M. Majella è fecondissimo di simili cave, ma niuna è tanto bella e svariata come quella delle Praglie, la cui lunghezza e profondità è fino ad ora un mistero. Pasquale de Virgiliis, 1835.