domenica 27 gennaio 2013

Le Cascate della Prata da Umìto

Il sentiero che partiva da Umìto giaceva nel freddo delle zona d’ombra, quella gola profonda bloccava qualsiasi spostamento d’aria, rendendola immobile, così come erano immobili le cosetoccate dal gelo. La neve rivestiva alberi e sottosuolo, velava di bianco ogni pianta, ogni pietra, e bloccava tutto nella visione perenne dell’inverno. La zona d’ombra schiarita dalla neveassumeva le tenui tonalità della carta da zucchero, di un azzurro lontano e nostalgico: la visione passata della magia che si coglie prima dell’alba o dopo il tramonto, quando tutto sta per rivelarsioppure per perdersi. Soltanto l’acqua che correva lungo il fosso tradiva quella situazione immobile, il suo fluire ci accompagnava distendendo le nostre percezioni, conferendo al bosco una dellepoche voci che aveva a disposizione in questa stagione. Salivamo in direzione del fosso del Rio Secco, alla ricerca del sentiero per raggiungere la finale delle Cascate della Prata, mentre alla nostrasinistra, il liscio letto di arenaria veniva lambito dall’acqua che scendeva. Risalito il sentiero ci trovavamo al cospetto della finale: una maestosa e imponente cascata ci sovrastava,lasciandosi sorprendere a mostrare l’anima dei suoi elementi. Il ghiaccio brillava come fosse una materia preziosa, ed effettivamente lo era nella sua effimera esistenza: nulla potevaessere più inestimabile di quegli istanti. Cascate della Prata quota 863 mslm. Formata dal Rio Prata, o Rio Secco, appare come una delle più belle cascate dei Monti della Laga, anche conla portata minima sprigiona il suo magico fascino. Sia lungo il sentiero che viene dalla strada brecciata di fondo valle, sia lungo quello che viene da Umito fino alla base della cascata, ci sonouna serie di piccole piazzole dove fino agli anni 50 gli abitanti di Umito bruciavano legna per ricavarne carbone facile da trasportare; Il paleontologo Guglielmo Allevi nel suo libro “Frale Rupi del Fiobbo” (1894) parla di un primitivo insediamento umano sul crinale di fronte alle cascate denominato “Ara della Croce”, e chiama i carbonai “i neri sacerdoti del fuoco”. I repertiche furono trovati nell'insediamento furono portati dal paleontologo ad Offida, ma oggi è possibile vederli al Museo Archeologico Nazionale Pigorini di Roma, dove sono custoditi. Ilsentiero percorso era anticamente usato per raggiungere l'alta montagna del comune di Montacuto (uno dei cinque comuni in cui fino al 1860 era divisa Acquasanta). I pascoli sopra lacascata sono ancora oggi usati durante il periodo estivo per le greggi. (Notizie tratte da un cartello informativo del luogo).

domenica 20 gennaio 2013

I Calanchi di Atri

Lo sguardo si apriva su terre lacerate, tra guglie e basamenti di cattedrali stranissime. I Calanchi di Atri riempivano quell’immensa vallata, sprofondavano, e apparivano repulsivinella loro natura instabile. Le nuvole coprivano il cielo conferendo alla superficie la tonalità delle ombre, tutto si vestiva dei colori bruni della terra, come i pigmenti polverosi dellefarfalle che dimoravano nella riserva. Alcune vivevano anche un anno ed erano in grado di migrare dall’Africa all’Islanda. La terra si scarnificava lasciando esposti i suoi scheletri, ammiravo ogniorlo, ogni profilo calcificato e scoprivo ad ogni sguardo la sublime attrazione delle cose inaccessibili. La Riserva Naturale dei Calanchi di Atri, istituita con legge regionale n°58 dal 20 Aprile1995, presenta un’estensione di circa 400ha sviluppandosi dai 400 m.s.l.m del fondovalle del Torrente Piomba ai 468 m.s.l.m. di Colle della Giustizia. La varietà degli ambienti naturali el’assoluta singolarità geomorfologica dei Calanchi rendono questo ambiente naturale un’esclusiva territoriale a livello nazionale. L’area protetta conserva una delle forme piùaffascinanti del paesaggio costiero adriatico: i Calanchi, imponenti architetture naturali conosciute localmente come “li Ripe” ai più con il nome di “Bolge dantesche” o “Unghiate delDiavolo”. L’aspetto aspro ed impressionante delle rupi calanchive deriva da una forma di evoluzione erosiva dinamica dei suoli causata dall’alternarsi di periodi piovosi e siccitosi susuoli argillosi, spogliati e portati in superficie da passate deforestazioni e sovra pascolamenti. I Calanchi segnano tutta la fascia pedeappenninica peninsulare, ma solo qui, nel territorio diAtri, caratterizzano così fortemente il paesaggio agrario. (Le notizie riportate in corsivo sono tratte da un cartello informativo del luogo).

Pineto e la Torre di Cerrano

Il profilo del mare d’inverno non trovava pace, ribolliva e confondeva i suoi limiti con quelli del cielo. Tutta la sua voce si concentrava nel suono delle onde, increspate e violente nell’impatto con la battigia. Le ruote della bicicletta percorrevanoa fatica la riva del mare, tra resti di conchiglie e rami scarnificati, mentre stormi di gabbiani si infastidivano della nostra presenza, volando via per riatterrare poco dopo il nostro passaggio. La Torre di Cerrano mano a mano diveniva sempre più grande, fino amanifestarsi sopra di noi con il suo profilo dominante. Adagiata su un promontorio a picco sul mare, la torre costituiva un fondamentale elemento di controllo del più ampio sistema territoriale di avvistamento costiero, voluto dai viceré spagnolidi Napoli, Alvares di Toledo e poi Parafan de Ribeira, duca di Alcalà, nella seconda metà del XVI secolo, dopo le devastanti incursioni turche. La torre, edificata nel XVI secolo (1568), assume la tipica conformazione delle torri del Viceregno ed il suonucleo originario, nonostante gli importanti interventi di sopraelevazione ed ampliamento, è ancora ampiamente riconoscibile. Il presidio, che conservò la sua funzione di controllo durante il XVI e il XVII secolo, divenne possedimentodei marchesi di Cermignano, i di Scorrano che si servirono della torre per difendere il confine orientale del marchesato. Sulla originaria torre a tronco di piramide, con base quadrata ed apparato a sporgere su robusti beccatelli con tre caditoie perlato, venne eretta, all’inizio del XX secolo, una seconda torretta quadrata coronata da merli. Nel corso di tali lavori di trasformazione furono modificati anche gli interni del manufatto creando una scala ed alcuni piccoli vani nello spessore dellemurature, con l’apertura di finestre ad oblò. Nuovamente ampliata con l’aggiunta di un corpo di fabbrica ad “L” verso sud-est, negli anni 1982-83 venne restaurata ed è attualmente sede di un Laboratorio di Ecologia Marina. (Tutto il testo riportato incorsivo è citato dal libro “Guida ai Castelli d’Abruzzo” – Carsa Edizini). Pineto contraddistingueva la sua bellezza con la piccola foresta da cui prendeva il nome, quel tratto di lungomare si immergeva nell’ombra dei pini marittimi, come se quella linguadi terra fosse un’oasi di pace dal caldo potenziale dell’estate. Quegli alberi così grandi nel corso degli anni avevano assecondato il verso del vento, si piegavano cercando la più ampia estensione di loro stessi, saldi alla propria terra e pronti ad accogliere chiunque sotto la loro protezione.

domenica 6 gennaio 2013

Il Lago di Campotosto e le miniere di torba

Portavamo negli occhi ancora la bellezza di Campo Felice e delle sue piste da fondo, la giornata era stata così bella e così distinta dall’alta pressione che proprio non riuscivamo a rientrare a casa. Desideravamo ammirare il tramonto per concludere la giornatacon la bellezza negli occhi, per questo andavamo a Campotosto a scrutare sul filo dell’acqua le luci della sera, quelle poco dopo il tramonto, quando tutto si infuoca e vive di un’intensità assoluta. Le ombre si animavano silenziosamente di un rosso intenso, lasuperficie del lago era perfettamente distesa, disturbata solo di tanto in tanto dal volo radente delle folaghe, che sfruttavano la superficie come resistenza per il loro volo. Ammiravo quello specchio d’acqua e pensavo a tutto quello che c’era sotto, allevecchie case dei pastori e alle miniere di torba, alle ferrovie abbandonate, ormai da anni inghiottite nel buio di quella immensa mole d’acqua. Ad aprile 2012 scrissi un articolo per la Lucciola, il giornale settimanale di Marruci, dove trattavoproprio l’argomento delle torbiere sotto il Lago di Campotosto, lo riporto di seguito.
 
La miniera di torba sotto il Lago di Campotosto. La costruzione della diga artificiale che ha portato alla formazione del Lago di Campotosto venne iniziata nel 1939 dalla Soc. Terni. Prima di allora tutto l’altopiano si costituiva di prati verdi dediti ai pascoli, una delle principali ricchezze del territorio, ma soprattutto di una risorsa naturale generatasi attraverso i secoli: la torba. Oltre settecento ettari della superficie palustre erano torbiferi, per una profondità in alcuni punti anche di venti metri. Gli abitanti del posto non avendo le possibilità e i mezzi per dedicarsi all’estrazione industriale fecero presente alle autorità di tale rinvenimento, e fu così che nell’ultimo decennio del 1800 si intrapresero gli studi per l’estrazione della torba, con bonifiche e trivellazioni. Con la scoperta di questo ricco giacimento, gli abitanti del territorio si animavano di grandi speranze di uno sviluppo economico e sociale: tale ricchezza avrebbe di certo portato lavoro ed investimenti, su di un altopiano ricco già di suo di bellezze naturali. La torba, oltre a servire come combustibile, poteva essere utilizzata in molti modi: per conservare le sostanze alimentari, poteva essere convertita in carbone, se ne poteva estrarre il petrolio, il catrame, il gas, lo spirito o addirittura essere ridotta in carta ed ovatta, o semplicemente usata come concime, insomma una vera ricchezza dalle molteplici destinazioni di utilizzo. Il comune di Campotosto si trovò a dover gestire una potenzialità immensa senza averne purtroppo le capacità: nacquero così tanti progetti, uno più importante dell’altro, tutti urgenti nella realizzazione che alla fine finirono inevitabilmente per accavallarsi e ritardarne così l’esecuzione, questo avvenne fino a quando le redini della situazione non vennero prese in mano dalla Soc. Aterno, che, addossandosi l’esecuzione di tutti i lavori, diede vita ad un cantiere bene organizzato e ben gestito, in grado di fruttare un enorme reddito. I giacimenti torbiferi vennero sfruttati fino a quando altri studi non interessarono la zona per la realizzazione di un enorme lago artificiale: sotto il Regime Fascista l’Italia aveva bisogno di ricavare energia elettrica dal suo territorio. Sara Chiaranzelli (Bibliografia: Campotosto e il suo lago di Aurelio De Santis).

sabato 5 gennaio 2013

Monte Soffiavento da Santa Dorotea

Gennaio lasciava le sue giornate indecise nella stagione, il freddo si posava nel fondo delle vallate, mentre sulle montagne le temperature si addolcivano sotto gli influssi dell’inversionetermica. Alcuni sentieri marcavano la costa di Monte Soffiavento, tra una natura spaesata dal caldo che non sapeva se innescare o no le sue gemme. L’umidità si manifestava come un velo sopra ipaesi e la città, copriva tutto come una trasparenza liquida, mentre tutte le parti sommitali godevano della visibilità pulita dell’aria, schiarita ulteriormente dal biancore della neve. Unnuovo anno era da poco iniziato, come era bello scoprirne l'inizio da sopra una montagna.

martedì 1 gennaio 2013

L'Annunziata di Fano Adriano

Il primo giorno dell’anno si apriva nella tranquillità di un freddo mattino schiarito dalla luce del sole e dall’aria nitida. Le montagne si animavano di lingue di neve ghiacciate, che scendevano lungo i canali fino a valle, quasi a voler tener strettala congiunzione tra la terra e il cielo. Seguivamo i percorsi di strade anonime, salivamo e scendevamo quei tragitti nel silenzio del primo mattino dell’anno, quando tutto dormiva e in giro non si vedeva ancora nessuno. Una strada saliva in direzione diun’antica chiesa-eremo posta su Monte San Marcello, la nostra curiosità veniva presto ripagata dalla scoperta di uno dei più bei balconi posti a settentrione del Gran Sasso, volto ad ammirarlo in tutta la sua mole maestosa. La chiesa dell’Annunziata si collocavasul culmine del piccolo colle, la sua storia la portava indietro di secoli, nella memoria degli eremiti che l’avevano abitata. Ormai chiusa, infittiva le grate del suo ingresso con foglie di quercia secche, quella porta non si apriva ormai da tempo e a noi nonrestava altro che ammirarla dall’esterno. Sull’architrave di uno degli ingressi della chiesa troviamo incisi la data 1597 e lo stemma di Fano Adriano. Questa è l’unica data certa di cui disponiamo. Si potrebbe anticipare l’origine della chiesa se laCona del Monte, che figurava in un’epigrafe del 1473, corrispondesse alla Cona dell’Annunziata. La chiesa occupa l’estremità di un ampio pianoro sulla cima del Colle di San Marcello. È una costruzione rettangolare che presenta, nel latolungo rivolto verso il piano, due grandi archi. Dall’arco  di destra si accede a una specie di vestibolo dove si trovano i due ingressi alla chiesa. L’interno è a due navate di differente lunghezza, divise da due grossi archi a tutto sesto, ed illuminato da duefinestre per lato. In fondo alla navata maggiore si trova un altare in legno, contornato da semplici affreschi, sul quale si legge la data 1785. Una porticina a destra dell’altare conduce nella sagrestia. La zona abitativa occupa l’estremità ovest delfabbricato e si sviluppa su due piani. La parte dell’edificio che pone più interrogativi sull’origine di questo luogo di culto è quella dove figurano dei grossi conci squadrati e sovrapposti a secco. Potevano appartenere ad una precedente chiesa, a unatorre di avvistamento, a un piccolo fortilizio, o addirittura ad un tempio, come lascerebbe supporre il toponimo Fano Adriano. I racconti relativi a questo luogo di culto si limitano alle storie degli eremiti che si sono succeduti nella cura dell’eremo. (Tutto iltesto riportato in corsivo è stato tratto dal libro Eremi d’Abruzzo – guida ai luoghi di culto rupestri” Carsa Edizioni e riportato a citazione).