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Una luce calda rischiarava il rigore essenziale di quel luogo
sacro, filtrava dalle piccole finestre strombate e vestiva le mura in
pietra di
un’atmosfera raccolta. La sua datazione era storicizzata al 1313, ma alcune
supposizioni ascrivevano la Chiesa di San Clemente
al periodo paleocristiano. La
notte precedente la Pasqua, in passato, vi giungevano i fedeli da Assergi per
celebrare il mistero della
resurrezione, nei secoli chissà quante luci
vacillanti di fiaccole si erano perdute nel buio cosmico di infinite notti
stellate. Fonti
settecentesche l’appellavano come San Clemente in Fratta,
probabilmente allora vi era intorno una boscaglia ad avvolgerla
e custodirla, a
differenza di adesso, invece, dove una radura dorata battuta dal sole di agosto
la esponeva disarmata di ogni copertura.
Sulla porta di legno incisioni e date
richiamavano un passato non troppo lontano, ma tutta la sua essenza ci giungeva
come un
punto fermo oltre il tempo e lo spazio della bellissima Valle del Vasto.
Poco distante, il piccolo paese di San Pietro alla Jenca aveva abbellito
le vie,
portato i servizi, risistemato diverse case, come a voler tendere una mano al
turismo, che fortunatamente trovavamo rispettoso.
Le voci dei presenti si
mescolavano al rumore dell’acqua sempre sgorgante dalla storica fontana. Un
ripido sentiero scendeva nella
valle in direzione del fiume, dove poco distante
il Casale Cappelli teneva su di sé la memoria dei sentieri della Resistenza, che
il
progetto Percorso Memoria Natura del Comune dell’Aquila mirava a non far
dimenticare, ero felice di aver contribuito anch’io
a quel progetto con la
realizzazione del logo. Anni fa scrissi anche sulla storia che vi avvenne, su
Giovanni di Vincenzo e i suoi compagni in
quella notte di maggio del 1944. Il
letto del fiume Raiale era completamente asciutto, ci camminavamo dentro come su
un
serpente di argilla, da lì era più facile individuare le Grotte della Genca,
completamente nascoste nel folto della vegetazione,
sicuramente anch’esse un
tempo avevano fatto funzione di riparo anche nel periodo della guerra. L’interessante
complesso era
adibito a dipendenza agricola, all'interno vi erano ancora la paglia e i
carboni di un vecchio fuoco ormai estinto da anni.
Da Staffoli un sentiero a mezzacosta raggiungeva l’Eremo di
San Nicola, gli antichi terrazzamenti e i rinforzi di mura a secco del
passato garantivano
ancora oggi una comoda percorrenza. L’ombra del bosco e il fresco che risaliva
dai fossi rendevano piacevole
il nostro tragitto. “Si tratta di una piccola cavità, di circa 5 metri di profondità per 7
di larghezza. Presenta molte opere murarie
erette per regolarizzare il suo
perimetro, altrimenti molto irregolare. Sul lato sinistro un sedile percorre
quasi tutta la parete, al
di sopra affreschi molto rovinati lasciano intravedere
7 personaggi e una figura più piccola. Vi si legge: S. IOANNES e MARIA, e
più
sotto: DUAS RABAS. Sulla parete di destra si riconoscono S. Michele Arcangelo,
S. Pietro, la Vergine con Bambino, S.
Margherita, più altre due figure non ben
distinguibili.” (Gianfranco Trovato, “Culti Ipogei”, Notiziario del Circolo
Speleologico
Romano, 2004). La descrizione della "Grotta di S. Nicola presso
Capradosso" risaliva a oltre vent’anni fa, non c’erano più gli
affreschi descritti
ad omaggiare i visitatori del luogo sacro, ma soltanto lacerti di malte
cromatiche che con minimi decori lambivano
quasi tutte le pareti. […] “La grotta di San Nicola in passato fu un
eremo, con alcuni aggiustamenti in muratura, un camino e
tracce di due
pregevoli affreschi narranti la vita del Santo titolare, attualmente conservati
presso il Museo del Monastero di
Santa Filippa Mareri a Borgo San Pietro. Con
molta probabilità l'affresco rappresenta il più antico documento pittorico del
Cicolano
e ritrae, con uno stile orientaleggiante che rimanda alla pittura del Duecento,
San Nicola, la Vergine, il Bambino ed
altre figure. Questo rifugio, dopo il
1228, a seguito dell'infeudamento del territorio a varie famiglie, fu scelto da
Filippa, sorella di
Tommaso e Gentile Mareri, e da alcune sue seguaci come
luogo di fuga nel quale decise, dopo aver rifiutato tutte le offerte
di
matrimonio, di dedicarsi alla vita monastica”. (tratto da un cartello
informativo del luogo). Un altro luogo, un tempo
importante, catturava la
nostra attenzione: San Giovanni di Staffoli era una delle prime chiese edificate
di Petrella Salto, citata
nelle bolle papali del 1153 di Anastasio IV e del
1182 di Lucio III, ma l’importanza di un tempo aveva ormai lasciato spazio all’oblio,
vedevamo soltanto ruderi sommessi e anonimi, accostati alla strada e semi
nascosti dalla vegetazione.
Due bellissimi eremi si trovavano nel passaggio naturale che
metteva in comunicazione la conca reatina con la Sabina tiberina,
attraverso
sentieri boscosi a mezza costa protetti dal sole, e un canto
assordante di cicale che pareva andare in risonanza con
l’eco delle loro
simili. Conoscevamo prima la Grotta-Eremo di San Michele, la sua bellezza era
protetta da una grata che
lasciava ammirare da lontano gli affreschi medievali,
lasciandosi comunque animare dal fascino delle convinzioni popolari che
volevano il drago-serpente sconfitto dall’arcangelo e qui omaggiata la sua lode
con l’edificazione del piccolo santuario rupestre. Di
lato una parete verticale
svelava una pietra compatta e sublime,
alla cui base le fondamenta di un romitorio testimoniavano l’antica
presenza
umana. Senza delimitazioni invece era l’Eremo di San Leonardo, la sua bellezza
era fruibile a tutti, purtroppo anche
a coloro che con scritte ne avevano
deturpato le povere mura. Immerso nella lecceta del Fosso di Galantina, si
apriva al viandante con
una serie di pochi gradini e un arco d’ingresso. Resti di
mura definivano l’eremo, lasciando intuire i passati utilizzi, mentre
nel ventre
della grotta un ciborio con volta a vela manteneva ancora la sua funzione
sacrale raccogliendo gli ex-voto dei pellegrini.
Resti di affreschi databili al
1450 di Jacopo da Roccantica ritraevano San Leonardo e Santa Caterina
d’Alessandria, purtroppo
erano andati quasi completamente perduti, e le poche
malte cromatiche rimaste erano state incise dalla stupidità di chi non
arrivava
a comprendere il valore delle cose.