Alla base
occidentale della Serra Sparvera vi era il Vallone delle Masserie, interamente percorso
da una lunga strada bianca che dalla Cantoniera Mimola giungeva fino a Scanno.
Nel cuore di quella valle ciaccoglieva l’agriturismo Jovana, una struttura
ricettiva che da anni coniugava perfettamente l’ospitalità con l’autenticità
del territorio, era stato uno dei primi agriturismi ad esser aperto in Abruzzo.
Giunti lasera prima avevamo negli occhi la bellezza di una notte rischiarata
dalle stelle, il silenzio e la fortunata apparizione di un lupo. L’indomani invece
portava in dono la neve, scesa inosservata nelle ore del riposo.Da Valle Cupa
fino a Scanno seguivamo la via che ad una ad una svelava le masserie della valle,
lungo l’antica via glareata che ormai
era completamente ricoperta di neve. L’antico castello di Jovana Vecchiamostrava i resti delle sue mura medievali, ancora slanciate su un piccolo colle, ora spazzato dal vento, a ribadirne la presenza. Scendevamo lungo la valle in
direzione di Scanno, trovando prima laMasseria di Cristo, un vecchio pagliaro in
pietra dall’architettura a condola, e poi la Masseria Collafrino, ancora attiva
delle sue funzioni e custodita da dodici pastori abruzzesi. Veniva poi Scanno,
con le sue viegremite di gente e di decori nell’ultimo giorno dell’anno. Dopo
la breve visita tornavamo nel silenzio a risalire la valle, mentre la neve
scendeva sempre più abbondante ad ovattare la visione delle luci del paese. Lasera a cena avevamo il privilegio di essere seduti assieme alla famiglia di
Liborio, il capofamiglia pastore dell’agriturismo Jovana che ci ospitava, un
brindisi di augurio e le parole più belle che mi ha dettoportate nel cuore. Grazie
Liborio, grazie Roberta, grazie Antonietta, grazie Lorenzo, torneremo
sicuramente a trovarvi per trascorrere insieme altro tempo prezioso.
Sulla cima di Colle San Mauro giacevano i resti di un antico
basamento circolare con annessi alcuni gradoni in pietra, quella conformazionecosì particolare, e così situata, lasciava supporre un’antica torre di
avvistamento, magari edificata lì proprio per avere un controllosull’importante
valle di Amiternum. Non vi erano
documentazioni in merito, e neppure l’IGM ne riportava la presenza. Conobbi
questo sitoanni fa, accompagnata da Mario D’Angelosante, fu proprio lui a
trovarlo e a farmelo vedere per primo; ne parlai con archeologi estudiosi ma
nessuno ne sapeva nulla. Oggi come allora la vista mirava l’ampia valle coperta
di neve, dove strade e file di alberi neframmentavano la visuale. Si
riconoscevano i paesi, mentre le montagne mostravano altri profili, ma restando
sempre le stesse,immemori e familiari. Seguivamo i percorsi senza conoscerli,
ma riuscendo sempre a trovare la giusta strada.
Mi piaceva sempre uscire dal buio della grotta al primo
rischiarare della sera, che oltre il varco notturno trovava certezza solo nel
flebilebagliore delle stelle. Sotto di noi il fiume proseguiva il suo corso
con movimento costante, sopra di noi il bosco raccoglieva il riposo come afermarsi. Presto sarebbe giunto anche l’inverno a frenare ancora di più ogni
cosa. La Grotta aveva alternato i suoi passaggi in una serie dipiccoli pozzi,
divenendo mano a mano sempre più calda grazie alle sue sorgenti termali sul
fondo. Faceva molto caldo lì sotto, avvoltidall’odore di zolfo eravamo andati
via senza fare il bagno rituale. Ora eravamo fuori, sulla via del ritorno, a
seguire i sentieri nel bosco,mentre la notte terrestre accorciava mano a mano tutte le distanze.
La necropoli
etrusca di Sovana restituiva alla luce l’antica magnificenza di nobili
sepolture. La più solenne tra tutte era la Tomba Ildebranda,visibile anche in
lontananza, un mausoleo scolpito nella roccia viva che a distanza di millenni
osannava ancora la memoria di un personaggioillustre. Un dromos scavato nella roccia dava accesso alla sottostante camera
sepolcrale a croce greca, vestita ora solo di penombra e disilenzio. La pietra
si modellava del sublime fascino di entità mostruose, tra Sirene e Tifoni
incontravo nuovamente l’inquietante simbolo diMedusa, montata da serpenti, a
simboleggiare l’orrido scorrere del Tempo. Il “principio della distruzione” era
esplicato su quelle rocce, travie Cave e Scacciadiavoli, dove ancora era
tangibile la suggestione nel varco di ripide pendici di forre boscose.
La “Città perduta”
di Vitozza sorgeva su un lembo di terra avvolto dalle anse del Fiume Lente. Un vecchio
sentiero la metteva in comunicazionecol piccolo paese di San Quirico, dove il
presente si congiungeva al passato segnato da secoli di abbandono. Pioveva
senza sosta tra lecci,roveri e carpini, impregnati d’acqua e d’autunno, dove ogni
grotta scavata nel tufo era un riparo prezioso da indagare con calma. La terrasi apriva con numerose camere e sepolture, articolate nel ventre del sottosuolo,
a volte collassate a causa della natura friabile della roccia. Iresti della
Chiesaccia innalzavano la memoria di un antico campanile a vela, mentre il tufo
bagnato scuriva le sue forme nel contrasto di fogliecolorate di una natura
prossima al riposo. Un antico colombaio etrusco accoglieva ancor oggi il riposo degli
uccelli, tra vegetazioni incolte, rovie nebbie d’autunno vi era il ricamo
prezioso di una pietra duttile cara agli antenati.
Il
Lago dell’Accesa sorgeva nel Sud delle Colline Metallifere, circondato da
arbusti e canneti, nel cuore di una fitta superficie boschiva piena disentieri
da scoprire. Lì intorno vi erano moltissime miniere dovute alla presenza di
piombo, argento, zinco, ferro, rame e oro, mineraliformatisi nell’Era
Terziaria dovuti all’imponente massa magmatica iniettatasi tra le formazioni
sedimentarie dell’Appennino Toscano,circa 70 milioni di anni fa. Gli Etruschi vi
si insediarono nel VI sec. a.C. ed ancora oggi erano visibili le tracce dei
loro antichi insediamenti. Traun bosco di eucalipti, lecci, sugheri e faggi
ricoperti di muschio la terra scopriva i basamenti di antiche tombe, il perimetro
di mura dicontenimento e probabili forni per l’attività metallurgica. L’aria umida
tesseva nebbie leggere che riflettevano il verde intorno rilasciando unaluce
particolare, mentre le querce da sughero lasciavano ammirare le loro spesse
cortecce come vestiti importanti.
Dalla
Torre del Candeliere ammiravo gran parte delle Colline Metallifere. Scoprivo i
vicoli e le chiese di Massa Marittima, tra lacromia di antiche vetrate e il
rigore essenziale della pietra. Conoscevo la gentilezza degli abitanti e la loro
disponibilità, mi davano indicazionesui luoghi da visitare, e sui punti di
vista più belli da vedere. Ero incuriosita da tutti quei giacimenti minerari.
La pioggia andava eveniva scurendo la pietra, e contrastando il paesaggio
lontano, tra la terra e il cielo e le colonne d’acqua che ne facevano da congiunzione.Scoprivo tra i vicoli il laboratorio Icona, con i suoi gioielli di legno
pregiato e diamanti.