Al di sopra di
Barisciano si dispiegava il sentiero dei Santarelli,
un antico percorso compiuto dai contadini e dai pastori per immettersi sulle vie
della monticazione. L’antico tratturomostrava a malapena la presenza dell’uomo tramite sconnessi muri a secco ed il
vuoto di una nicchia votiva ormai dimenticata. Il carattere austero del Gran
Sasso si ammorbidiva grazie ai suoicontrafforti collinari ed erbosi, dove
antiche testimonianze italiche narravano da millenni il culto dei popoli
Vestini. Presso la Fonte di Sant’Angelo alcuni archeologi avevano rinvenutosignificative
sepolture e testimonianze epigrafiche, pronte a testimoniare la presenza dei
popoli italici nelle aree più montagnose di Barisciano, così come una piccola
altura anonima,situata poco più avanti in direzione di Santo Stefano di
Sessanio, lasciava riemergere dalla terra la testimonianza di cinque tombe a
tumulo del VI-V secolo a.C. I popoli italici erano custodi delleantiche vie
dei tratturi poiché la pastorizia era la loro principale fonte di economia, e per
questo dovevano garantirsi l’accesso agli altopiani superiori dove foraggiare i
pascoli. Una delle maggioridirettrici della transumanza vestina passava proprio
nella zona adiacente al Monte della Selva, tra Monte Cofanello, Cognanelle
e Colle Force, e proprio in queste
prossimità trovavamo i resti diun’antica cinta muraria del V – IV secolo a.C.,
che se vista dall’alto lasciava leggere perfettamente il suo perimetro
circolare. Un piccolo gruppo di caprioli era intento a riposare tra i resti diquell’antica postazione, come a volerne sottolineare ancora la sua funzione efficace
nonostante lo scorrere dei millenni.
Per
approfondimenti: “Ricerche sugli insediamenti Vestini”,Adriano La Regina, in
«Mem. Acc. Lincei», serie III, vol. XIII, fasc.5, Roma 1968, pp. 360-444; “Centri
fortificati Vestini”, Ezio Mattiocco, Teramo 1986; “Paletnologia e Archeologia
di unterritorio”, Fulvio Giustizia, Roma 1985; “I Vestini e il mistero del pagus di Separa”, Alberto Rapisarda,
L’Aquila 2011; “Terra di Barisciano”, Raffaele Giannangeli, L’Aquila 1974.
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