L’eremo di San Aliatore si nascondeva al di sotto delle
balze rocciose delle Gole di Antrodoco, costituito da una piccola grotta didifficile localizzazione era raggiungibile soltanto attraverso ripidi sentieri.
Un bellissimo angelo dalle fattezze bizantine eracustodito sulla parete di
fondo, e anche se visibile soltanto parzialmente era comunque ancora in grado
di suscitare moltissimasuggestione. La sua datazione – presumibilmente
risalente al XIII secolo – compiva un grande salto temporale, svelando memorie
diuna vita lontana priva di agi ma comunque ricca della naturale bellezza del
territorio intorno. Affianco alla grotta un vecchio romitorioera stato ricavato
innalzando un muro a ridosso di uno scavernamento, chissà quali vite avevano
vissuto in quel luogo, echi di un passato di cuisoltanto quelle pietre erano
testimoni. Grazie ad Eligio Boccacci del CAI di Antrodoco per avermi dedicato
il suo tempoaccompagnandomi all’eremo che difficilmente avrei trovato da sola,
e agli altri soci della Sezione che ho avuto il piacere di conoscere.
Allo Stazzo delle Mandrucce i prati si vestivano d’erba d’oro.
Il piccolo rifugio si apriva accogliente nel cuore della valle, unica presenzapreziosa di tutta la zona che avevamo raggiunto attraversando Valle Cupa. Partiti
da Jovana ci eravamo inoltrati nei toni ombrosi del boscod’autunno, lungo una
comoda carrareccia bordata di noccioli, di faggi, di aceri e di cespugli
spinosi di rosa canina. Antichi muri a seccoricoperti di muschi e vecchi
alberi vestiti di licheni dimoravano nell’ombra perenne di quella selva infossata
tra Monte Curio e SerraPantanella, che una volta oltrepassata dava respiro ad
un ambiente lunare ed essenziale, spoglio di ogni albero, in grado di svelare
soltantoi dolci avvallamenti della terra. Il piccolo rifugio forniva riparo e
indicazioni, l’oro d’Abruzzo era nei pascoli intorno che mano a manoprocedevano lenti sotto la guida di un pastore e dei suoi cani. Eravamo circondati
della preziosa ricchezza dell’essenziale.
Al di sopra delle Gole di Antrodoco un reticolo di sentieri
metteva in comunicazioni edifici diruti, memorie di un passato lontano riccoancora di tanta suggestione. Quella natura così impervia si riprendeva quanto l’uomo
le aveva tolto, lasciando svelare soltanto a tratti levecchie mulattiere. Quegli
edifici anonimi erano ormai riparo di arbusti, le loro finestre direttamente scoperchiate
su volte di cielo nonfacevano più differenza tra dentro e fuori. Lunghe file
di mura a secco assecondavano sinuosamente il sentiero tra querce e ginestre,
labellezza era ovunque tra i sassi, lungo vie parzialmente dimenticate che
lasciavano ancora intendere la loro importanza. Trovavamo l’eremo diRottevecchia nascosto da una vegetazione selvaggia, la sua datazione risalente
al XIII secolo ci proiettava in un passato lontano fatto diisolamento e
privazioni. Una scala in pietra semidismessa dava accesso ad una grande grotta
protetta da un muro, l’area sacra era a ridossodella montagna, così come un
altro ambiente nelle prossimità, probabilmente costruito in un secondo momento, che custodiva ancoraall’interno l’agio di una dispensa con scaffali in legno inseriti
nella muratura, e all’esterno un piccolo affresco di una Madonna conBambino
datato a.D.1583. Fuori un pozzo ancora mantenente l’acqua si riforniva dello stillicidio delle rocce sovrastanti.