L'Inghiottitoio di Palarzano e il Castello di Cascina
L’inghiottitoio di Palarzano era ormai ostruito da molti
anni per mano dell’uomo, chissà quale sistema carsico si animava sotto quel
tappo di
cemento, quali meraviglie intatte da indagare e sconosciute, mai
rilevate e misteriose. La leggenda portava il detto de “l’acqua cascinese
dolce era e amara misi fece” parole della moglie
di un pastore di Antrodoco, che abituata a raccogliere a valle le pecore rubate
dal
marito e buttate nello gnottetùru
un giorno raccolse i resti del marito stesso, morto ammazzato come condanna per
quei furti. Tra la
leggenda e la realtà chissà quali percorsi c’erano nel
sottosuolo, chissà se davvero compivano un tragitto sotterraneo che da Cascina
giungeva
fino ad Antrodoco, a noi rimaneva solo la vista superficiale di
altipiani rasserenanti, definiti dalla geometria delle coltivazioni, dai
recinti e dai
pochi casolari sparsi. Sulla cresta della Pacima vi erano i
ruderi del Castello di Cascina, risalenti al XII secolo. Quell’antico castello
era nato
anticamente come un insediamento rurale poi incastellato, e partecipò
alla fondazione della città dell’Aquila; il suo abbandono fu abbastanza
precoce, tanto che all’inizio del XIV secolo se ne attestava già una natura
diruta. Rimanevano spesse mura di pietra con varchi di finestre,
cumuli di sassi
rivestiti di muschi, ed arbusti solitari a dimorarvi. La vista spaziava sulla
bellezza di entrambi gli altipiani, dove mucche e
cavalli si percepivano come
punti di presenze lontane.

Nessun commento:
Posta un commento