domenica 27 giugno 2010

Rifugio di Coppo dell'Orso e Monte Cornacchia da Villavallelonga


Ho sempre sentito parlare benissimo del Rifugio di Coppo dell’Orso, situato al limite del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Ora che ci sono stata di persona ho potuto constatare questa cosa: il posto è stupendo, la gestione fantastica e l’accoglienza meravigliosa. Passato il paese di Villavallelonga abbiamo lasciato le macchine in uno slargo di fronte ad un fontanile molto grande che prende il nome di Tricaglio (1040 m). Da lì ci siamo incamminati in direzione di Fonte Astuni, dove sgorga un’acqua davvero buona. Tutto il percorso, fino al Rifugio di Coppo dell’Orso (1870 m), è stata una lunga salita che si inerpica in un bellissimo bosco di faggi. Ci vogliono sì e no 3 ore per arrivare su, e anche se la pendenza si faceva sentire abbastanza, tuttavia era piacevole perché il suolo su cui si camminava era quasi totalmente coperto da foglie secche che ammorbidivano il passo. Questa è la terra dell’Orso Marsicano, un animale stupendo che spero di non incontrare mai lungo il mio cammino. Poco prima di arrivare al rifugio abbiamo giustamente raccolto la legna per il fuoco, di certo non ci siamo incollati i ciocchi però almeno per accendere dovevamo provvedere. La legna pesante per il mantenimento della fiamma era già lì: una volta l’anno salgono a portarla con i muli, assieme alle altre cose necessarie per il rifugio. Ed è proprio con i muli che hanno provveduto a restaurare la piccola struttura: sul sito della sottosezione di Coppo dell’Orso ho letto che tale ricovero prima del 1980 era un rudere mezzo sfasciato senza porte né finestre, semidistrutto. Sono stati gli affiliati del CAI del posto a sistemarlo, trasportando tutte le cose necessarie: dalla rena all’acqua, al cemento, alle porte e finestre e via dicendo, sfruttando il viaggio di venti muli per portare tutto fin lassù. Hanno fatto davvero un lavoro eccellente. Dopo una brevissima sosta al rifugio riprendiamo il nostro percorso verso la cima di Monte Cornacchia (2003 m). Il tempo non era bello, e per questo avevo quasi intenzione di rimanere al rifugio, magari davo una mano a cucinare. Ma poi mi sono lasciata convincere a salire (anche facilmente), e sono felice di questa scelta. Sono montagne spoglie e pietrose, molto riflessive e belle. Assistono allo scontro dei venti della corrente della Vallelonga e della corrente della Valle del Liri: c’erano alcuni punti in cresta in cui soffiava talmente forte che quasi ti spostava. Arrivati in cima (2003 m) andiamo via subito, lassù proprio non si poteva stare, e poi i nostri amici di Coppo dell’Orso ci aspettavano al rifugio per pranzare tutti insieme! È stato un incontro toccante: non si sa quante cose buonissime ci hanno preparato, dalle pappardelle fatte in casa, ai formaggi del pastore della montagna di fronte (portate appositamente a piedi in mattinata), alla carne, al vino e al pane. È proprio nato un amore tra la Sezione dell’Aquila e quella di Coppo dell’Orso, e sono convinta che tutti, ma proprio tutti, avranno grande piacere a contraccambiare l’ospitalità, magari al Rifugio Panepucci. :-)

venerdì 25 giugno 2010

Cresta di Monte Bolza dal Piano di Racollo


Monte Bolza (1904 m) mi ha sempre affascinato molto, si presenta come un’increspatura isolata, quasi insolita per la conformazione del Gran Sasso: si eleva su Campo Imperatore come una sentinella, con le sue linee taglienti sia morbide che aspre, perché rocciose. Questo inverno mi è capitato di passare lì sotto, sia a camminare che a sciare, e ogni volta ne ho ammirato la cresta. Ultimamente il CAI aveva anche organizzato un giro che la percorreva, e io volevo tanto andarci, solo che alla fine ho evitato perché ero impaurita dal maltempo (quella non era per niente una bella giornata, e ancora avevo fresca nella mente l’immagine dei fulmini che si scagliavano là sopra quando sono andata a sciare a Campo Pericoli). Oggi però si poteva andare, approfittando di mezza giornata disponibile. Siamo partite prestissimo per sfruttare a meglio il tempo, e questa cosa ci ha permesso di ammirare i colori più belli che la montagna può indossare. C’era tanta dolcezza nell’aria. Tutti i colori erano così delicati che ammorbidivano i volumi delle montagne, rendendole addirittura leggere. Lasciata la macchina sul Piano di Racollo, ci siamo incamminate da lì, intenzionate a percorrere tutta la cresta che unisce Cima di Monte Bolza (1927 m) con Monte Bolza (1904 m). A parte la salita iniziale che porta sulla Cima, il resto del percorso è morbido e semipianeggiante, interrotto giusto da alcuni agglomerati di roccia su cui è necessario arrampicarsi. Non essendoci traccia di percorso segnato ci affacciavamo di volta in volta dagli spuntoni, cercando dei possibili punti di passaggio, ed ogni affaccio di quelli era come un balcone su Campo Imperatore o sul territorio della baronia (la vecchia Baronia di Carapelle). Che meraviglia. Arrivate sulla cima di Monte Bolza (1904 m) nonabbiamo trovato una croce a carattere identificativo, ma una targa di Castel del Monte che ne sottolinea l’appartenenza. D’altronde quella è la sua montagna, immagino che ci sia un legame molto profondo tra i castellani e quel rilievo che li protegge dalle intemperie di Campo Imperatore. Anche questo è stato un altro giro meraviglioso, ne sto facendo davvero tanti, e ognuno di questi mi arricchisce l’anima. È grazie alla montagna che ho capito in cosa consiste la vera ricchezza, tutto il resto è decisamente secondario.

giovedì 24 giugno 2010

Pizzo di Camarda dalla Valle del Vasto


Pizzo di Camarda (2332 m) è una delle montagne della catena occidentale del Gran Sasso. Ho provato a cercare informazioni a riguardo su internet, ma non ne ho trovate molte, si vede che questa è una delle cime meno frequentate del massiccio. Il giro che abbiamo fatto parte dalla Valle del Vasto: lungo la Strada Provinciale c’è un sentiero che va a monte, segnato all’inizio con un cartello del CAI che indica nello specifico la località di Camporanero (1160 m). Sulla carta il percorso è segnato bene, sul territorio invece non è per niente così, perché si perde e si confonde tra le tantissime tracce segnate dal bestiame. Tuttavia una mezza soluzione c’è: bisogna ignorare la carta e salire a dritto dal fontanile in direzione del canale, e da lì cercare la stradina che sale a zig zag, e che si accosta in seguito ad una recinzione di filo di ferro (questa conclusione l’abbiamo tratta al ritorno, perché all’andata abbiamo allungato tantissimo sbagliando il percorso). Comunque intercettata la carrareccia che conduce al Lago diCamarda (2053 m) non ci sono problemi: si segue quella e non ci si può sbagliare. Arrivate lassù ai nostri occhi si è aperto un panorama da togliere il fiato, davvero stupendo (!!!), ce lo siamo goduto tutto percorrendo il resto del sentiero in cresta. A dominare la visuale c’era soprattutto Monte Corvo (veramente ignorante come montagna) la vista della sua enorme dorsale ci ha accompagnato per tutta la salita. In circa tre ore e mezza siamo arrivate sulla vetta di Pizzo di Camarda (2332 m), e sia io che la mia amica abbiamo provato la stessa sensazione, quella di assistere ad una manifestazione dolomitica, tra i ghiaioni di Pizzo Cefalone e le creste taglienti delle Malecoste. Ad inasprire i tagli affilati delle rocce c’era un abbondante stormo di corvi che ha protestato al nostro arrivo (evidentemente li abbiamo disturbati!). Gracchiavano e volteggiavano nell’aria, di certo non gradivano la nostra presenza. Più tardi, mentre contemplavo le Malecoste, ho fatto caso che era proprio quello il posto in cui si erano annidati, tra quelle creste così scomode ed esposte. Erano tantissimi. Siamo rimaste poco in vetta perché la nebbia si

incanalava verticalmente in maniera veloce, e la paura era quella di qualche generazione elettrica (magari una preoccupazione eccessiva nel caso di oggi, però non si sa mai, né io né la mia amica siamo delle metereologhe, e nel dubbio è meglio andare via…). Siamo riscese (quasi) senza problemi, l’unica difficoltà l’abbiamo trovata nell’intercettare un ipotetico percorso segnato sulla carta, che ci ha condotto a percorrere un pezzo di canale un po’ roccioso e coperto dall’erba, ma tuttavia nulla di eccessivamente impegnativo. In meno di due ore eravamo giù. Se devo dare una opinione, ritengo che Pizzo di Camarda (2332 m) sia una delle montagne più belle di tutto il Gran Sasso, proprio non capisco come mai non sia molto frequentata (e quindi apprezzata). Forse a causa del suo decentramento, non so, di certo è una montagna stupenda che offre degli scenari unici e meravigliosi.

domenica 20 giugno 2010

Castello di Piscignola da Rocca di Corno


Più che l’inizio dell’estate sembra di essere in autunno, con le temperature basse, la pioggia e l’aria pungente. Il tempo è davvero impazzito. Per oggi avevo altri programmi, ma viste le condizioni meteo non me la sono sentita di fare giri lunghi o impegnativi e così ho scelto di fare un percorso a cui pensavo da tempo, che tenevo a mente come un’alternativa da sfruttare proprio in casi come questo. Lasciata la macchina poco dopo il passaggio a livello di Rocca di Corno, ci siamo incamminate lungo la carrareccia che conduce a Rocca di Fondi, e che passa per il Castello di Piscignola, la mia intenzione era quella di arrivare proprio in questa località. Guardando la carta ho visto che come sentiero era indicata una scorciatoia per accorciare la carrareccia, ma non vedendo i segnali abbiamo evitato questo taglio e seguito la strada per intero, anche perché né io né la mia amica eravamo mai state lì. È davvero molto semplice arrivarci, a circa un’ora di cammino il castello, o meglio quello che ne rimane, si eleva a vista d’occhio su di un piccolo promontorio dell’altopiano. Peccato solo per la pioggia, ne abbiamo presa proprio tanta, anche se comunque in quel contesto aveva il suo fascino. A guardare i boschi addossati sulle piccole montagne che abbracciavano la valle, si intravedeva una particolare umidità nebulosa che si elevava quasi come fumo, tutto era avvolto da una caligine bassa che velava le profondità in più passaggi. Del castello ormai ne rimangono giusto i muri a secco, distrutti e discontinui, che ne delineano appena il perimetro. Tutte le volte che vedo un’antica struttura mi viene da immaginare la storia della vita delle persone che sono passate di lì, di quello che hanno vissuto e di come si sono intrecciati i vari destini. A vivere lì ormai ci sono solo un mandorlo e un sambuco. La pioggia non ci ha permesso di esplorare la zona, ce ne siamo andate via subito.

giovedì 17 giugno 2010

Anello da Padula al Rifugio della Fiumata, alle Sorgenti del Tordino, al Fosso della Cavata


Quella di oggi è stata davvero una giornata intensa, molto bella, dove ho avuto la possibilità di confrontarmi con alcune capacità che si esternano solo se esasperate un pochino. Il giro è stato proposto da Luigino, un nuovo amico armato di esperienza e gps! Partiti da piccolo paesino di Padula (970 m) abbiamo intrapreso un sentiero che risale il Fosso degli Usteti, un tragitto che fa da scorciatoia ad un tratto di carrareccia (poi ripresa) che conduce alla località della Fronte. La bellezza del percorso si è scoperta fin dall’inizio, con la deviazione alla Cascata del Posaturo (1015 m). Èun microcosmo fatto di acqua e sottobosco, di enormi felci e pietre levigate come palle di cannone. Quanto adoro il rumore dello scorrere dell’acqua! Arrivati nei pressi di uno slargo nel sottobosco abbiamo attraversato un piccolo ponte con un esplicito divieto d’accesso in caso di straripamento del fiume. Non avendo un’idea precisa del percorso fatto ho segnato la carta con dei cerchietti rossi, indicando così i luoghi certi del nostro passaggio (la carta si ingrandisce se ci si clicca sopra). Il percorso che sale per Cesa Lunga e la Macchia della Fiumata è davvero una bella impettata, però la maggiore difficoltà l’ho trovata soprattutto nella fortissima umidità che ci era piombata addosso fin da subito (altro che sauna!). Tuttavia lungo il percorso cisiamo rinfrescati più volte lungo gli affacci che ridavano su alcuni salti del fiume (una di queste deviazioni è nei pressi del Rifugio Enel del Tordino (1385 m). Ripreso il sentiero, la tappa successiva, indicata dai segnali del posto, vede i resti della Teleferica della Fiumata (1535 m). Ormai quello che ne rimane sono solo dei vecchi ferri abbandonati, lasciati mangiare dal tempo e dalla ruggine. Usciti dal bosco la nostra vista si è aperta su un’enorme distesa verde incastonata tra le montagne, rigatadalle sorgenti e contrastata dal cielo: davvero un bellissimo spettacolo! Lì ci sono distese infinite (ma veramente infinite) di olaci (tenuti in buona compagnia dalle ortiche). Raggiunto il Rifugio della Fiumata (tenuto molto bene e al cui interno abbiamo trovato addirittura un caffè già zuccherato ad accoglierci!), abbiamo proseguito oltre, salendo il più possibile verso le Sorgenti del Fiume Tordino. L’acqua che sgorga da lì è ancora più bella, scorre sotto gli ultimi blocchi di neve e si lancia nei vari salti che incontra. È freddissima. Dopo una piccola pausa abbiamo ripreso il nostro cammino, con l’intenzione di fare un percorso ad anello per attraversare tutte le cascate della zona, fino alla più bella di tutte, quella del Fosso della Cavata. Di tutto questo lungo tratto di strada, la cosa che mi è rimasta più impressa sono stati i fitti prati di cardi e di ortiche, davvero delle distese notevoli, spesso anche più alte di un metro (per sopportarle bisognava fare appello alla propria forza interiore!). Sotto la cascata, il lettodel fiume si interrompeva in un lungo salto sopra il Bosco di Langammella. Per tornare verso Padula abbiamo individuato l’inizio del Sentiero Italia (fresco fresco di vernice), e ci siamo affidati a lui per riscendere, fiduciosi del recente ripristino segnaletico (anche perché sotto quel bosco il gps non prendeva affatto!!). Di norma la giusta segnaletica di un percorso fa fronte alla visibilità da un punto all’altro, soprattutto in un bosco grande come quello, con poca traccia segnata a terra, fitto di piante altissime, senza campo satellitare e tantomeno telefonico. Io davvero non riuscivo a capire con quale criterio l’avevano segnato: non solo i segnali non erano visibili, ma dovevi proprio andarli a cercare, sparivano per lunghi tratti, e addirittura depistavano! Forse chi l’ha segnato ama giocare a nascondino... oppure crede che chi percorre quei boschi è investito dalla dote sovrannaturale della veggenza... davvero non lo so, credo invece che dovrebbe mettersi una mano sul cuore, farsi un esame di coscienza e vergognarsi, perché a causa della sua mancanza mette in serio rischio chi si trova a passare da quelle parti. I punti poi dove si ritrova la segnaletica del Sentiero Italia sono pieni anche di altri segnali (non si contano le volte che abbiamo risalito e ridisceso gli stessi percorsi, attraversato gli stessi guadi e gli stessi prati di felci e ortiche (stavolta però alte un metro e mezzo). Alla fine stanchi e stressati dalla situazione (da un giro che doveva essere di 7 ore ne abbiamo impiegate circa 9 e mezza) siamo riusciti a venirne via, scendendo e tenendoci sulla sinistra del fiume come ce lo permetteva il terreno, tendenzialmente ripido e pieno di salti. Più che un’escursione l’ultimo tratto sembrava una prova di sopravvivenza, e non ci scherzo sopra questa cosa. Non si può segnare così male un percorso del genere (magari solo per appropriarsi indebitamente dei fondi messi a disposizione), è una cosa molto grave perché mette in serio rischio la gente che passa di lì. Non oso immaginare come può diventare quel bosco con il buio. Per fortuna comunque che è andato tutto bene, e di questa giornata voglio ricordarmi solo la bellezza del Tordino, della costa del Gorzano, delle magnifiche cascate (e anche dell’ortica!!).